Benché la percentuale di italiani che si sono sottoposti alla vaccinazione anticovid sfiori oramai l’80%, e sia ancora in crescita, la recente estensione, col decreto legge n. 127 del 21.09.2021, dell’obbligo di “greenpass” ai luoghi di lavoro ha suscitato un’ondata di polemiche, soprattutto sui social.
In questo post non mi occuperò delle obiezioni giuridico-costituzionalistiche al nuovo provvedimento, di cui qualche giorno fa si è fatta portabandiera, con un discusso intervento a una manifestazione pubblica, il Vice Questore di Roma Alessandra Schilirò.
Su questo aspetto magari tornerò, per il momento vorrei limitarmi all’aspetto medico-scientifico della questione.
E’ oramai assodato che la vaccinazione anticovid non ha un effetto “sterilizzante”, ovvero non rende il vaccinato totalmente inattaccabile dal virus, impedendogli così in modo assoluto di infettarsi e trasmettere l’infezione ad altri.
E’ altrettanto acquisito, tuttavia, che un vaccinato ha una netta minor probabilità di infettarsi e trasmettere il virus rispetto a chi non ha fatto il vaccino. Nell’ultimo rapporto dell’ISS di sorveglianza sul covid 19, pag. 19, si quantifica nel 76,8 % questa minor probabilità.
Un recentissimo studio dell’Istituto Spallanzani, per quanto non ancora ufficialmente pubblicato, indica nello 0,3% la percentuale di vaccinati che possono infettarsi e contagiare.
Poiché, com’è noto, la normativa sul “greenpass” prevede il riconoscimento del “lasciapassare” , oltre che a chi è guarito dalla malattia, ai vaccinati e a coloro che possono esibire un test molecolare di negatività al contagio, il cosiddetto “tampone” – d’ora in poi per semplicità li chiameremo, appunto, absit iniuria verbis, “tamponati”- la notizia, in sé vera, come abbiamo spiegato sopra, che i vaccini non “sterilizzano” e quindi i vaccinati possono contagiare, ha dato luogo a reazioni scomposte tra quanti osteggiano il “greenpass” portandoli a sostenere che i “tamponati” sarebbero addirittura meno pericolosi dei vaccinati per la diffusione del contagio.
Il ragionamento che si sente è questo: del “tamponato” siamo periodicamente certi ( ricordiamo che il tampone va ripetuto a distanza di qualche giorno) che non è contagiato, del vaccinato no.
Qualcuno, spingendo oltre il sillogismo, arriva a sostenere che solo i vaccinati sono contagiosi.
La fallacia di questa posizione è evidente. In realtà la stima di maggior pericolosità tra vaccinati e tamponati va completamente ribaltata, per due motivi: il vaccino ha una capacità, dimostrata, di contenere l’infezione, il tampone nessuna, trattandosi di un mero esame diagnostico che fotografa lo stato di salute.
Inoltre, la capacità del vaccino di contenere l’infezione, sempre dimostratamente, si prolunga nel tempo, mentre il tampone certifica la non contagiosità “istantanea” di chi vi si sottopone. Un momento dopo aver fatto l’esame, il tamponato potrebbe contagiarsi e infettare.
Così, senza voler dare dell’untore a nessuno, sia ben chiaro, è assolutamente incontestabile che tra un test di valore istantaneo e l’altro, il “tamponato” che accede al luogo di lavoro continua ad avere una probabilità nettamente maggiore ( il 76.8% in più, ricordiamo) di infettarsi e contagiare rispetto a un vaccinato.
Querelle risolta, dunque?
Sì e no.
Poiché la vaccinazione non ha effetto sterilizzante, ciò implica che, per rendere sicuri i luoghi di lavoro, evitando che, sia pure in casi marginali, i vaccinati possano diffondere il contagio, devono essere mantenute le misure di sicurezza individuali ( mascherine, lavaggio mani, distanze ecc )
A queste misure di sicurezza, a maggior ragione, rimangono sottoposti i tamponati.
Ebbene, in un ambiente in cui tutti osservano scrupolosamente le misure di sicurezza individuali, certamente molto efficaci nel combattere il virus, ha senso pretendere che chiunque sia anche vaccinato o tamponato? In altri termini: la vaccinazione e il tampone danno un contributo decisivo in più, nel contenere la diffusione del covid, rispetto all’osservanza diffusa delle misure di sicurezza individuali?
Questa è la domanda che è legittimo porsi, soprattutto in considerazione del fatto che il “greenpass” non è, evidentemente, una modalità normale di accesso ai luoghi di lavoro, ma si giustifica solo in ragione di una contingente emergenza di salute pubblica.
In questa prospettiva, dovrebbe costituire motivo di riflessione il fatto che l’obbligo di greenpass sui luoghi di lavoro è una misura che gli altri paesi europei non hanno introdotto, e anche a livello mondiale è un’eccezione.
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