Il seguente racconto ideato, costruito e scritto da Daniela Sibio prova ad immaginare un mondo devastato dal terribile virus che stiamo cercando di sconfiggere. Nel suo distopico percorso prevale una sola certezza: i bambini salveranno il mondo. Comunque vada a finire realmente.
Odiavo la scuola. Odiavo tutto quello che comportava la scuola: la sveglia alle sette, “muoviti che è tardissimo”, il tragitto in macchina e la relativa coda, poi il banco, la cattedra, i libri.
I maestri, con i loro occhiali sulla punta del naso e l’espressione insopportabile da “Io so le cose e tu no.”
Quando mi svegliai, quel giovedì, mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano. Il sole, nascosto dietro le tapparelle socchiuse, sembrava essere troppo alto. Stropicciai gli occhi e chiamai:
“Papà?”, nessuna risposta.
Ripassai mentalmente i giorni della settimana, poi mi convinsi del fatto che doveva trattarsi effettivamente di un qualsiasi, inevitabile, giovedì di scuola. Ricordavo bene i miei genitori la sera prima, a cena, dirmi che la festa di carnevale sarebbe stata due giorni dopo, quindi sabato.
Non vedevo l’ora. Il mio costume da Spongebob attendeva impaziente nell’armadio pronto ad essere indossato.
“Ehi, Gabry. Ricordati di mettere quello di Patrick. Se no sembreremo due stupidi.”
“Tranquillo, amico. Tu tieni pronti i coriandoli da lanciare.”
“I Krusty Burger vuoi dire!”
Abbracciai il mio pupazzo giallo spugnoso e gli suggerii sottovoce di stare tranquillo.
Scesi le scale lentamente: “Mamma? Papà?”. Nessuno rispose. Poi udii una voce proveniente dalla cucina. Vi entrai e trovai i miei genitori seduti al tavolo da pranzo con lo sguardo fisso verso lo schermo. Un tale con un camice bianco da dottore leggeva un foglio asciugandosi la fronte madida di sudore.
“E’ un’ora che vi…”
“Sssst. Stai zitto, per favore. E’ una cosa importante”, fece mio padre mostrandomi il palmo della mano.
“Hanno trovato il paziente zero” mormorò mamma visibilmente scossa.
“Paziente zero?” allargai le braccia.”Ma zero vuol dire niente. Paziente niente. Che c’è di male? E perché non mi avete svegliato per andare a scuola?”
Mio padre scosse la testa, rimanendo concentrato sulla televisione.
“Niente scuola, oggi”, disse. “Vai in camera tua a giocare.”
“Niente scuola? Ma che…”
Venni trafitto da due paia d’occhi che non ammettevano repliche.
Presi il mio bicchiere di latte in silenzio, i miei biscotti al miele e tagliai la corda.
Restai a casa anche il giorno successivo. I miei non addussero motivazioni.
“Stanno sistemando delle cose” si limitarono a dire.
“Che ne pensi, Spongy?” domandai al pupazzo. Anche lui si limitò a rimanere in silenzio.
Due giorni dopo, alla festa di carnevale, mi accorsi che tutti, ma proprio tutti, si erano travestiti allo stesso modo, con delle orribili mascherine azzurre legate alle orecchie da elastici bianchi.
Il lunedì successivo mamma tornò a casa dal lavoro. Provai ad accoglierla a braccia tese ma lei, con un sorriso amaro stampato sul volto, scosse la testa e si rifugiò in camera da letto, al piano di sopra.
“Dobbiamo parlarti di una cosa importante”, si convinse infine a dirmi papà.
Mi fecero sedere sul divano in salotto e, prima di parlare, si scambiarono una rapida occhiata. Mamma sedeva più distante, quasi pronta alla fuga.
“Vedi”, si schiarì la voce papà. “Mamma sta lavorando in ospedale contro un male cattivo e pericoloso.”
“Un male cattivo”, ripetei meccanicamente.
“Esatto. Un virus che ha costretto le scuole a chiudere, a farci rimanere chiusi in casa e, quando usciamo, a dover mettere quelle mascherine azzurre.”
“A rubare quindi il carnevale a Bikini Bottom!”, strinsi i pugni.
Mia madre sorrise.
“Non possiamo abbracciarci per un po’ “, disse cercando di bloccare le lacrime. “Dobbiamo stare attenti. Dobbiamo essere forti. Lo capisci?”
Ci pensai qualche secondo.
“Mamma, tu e i tuoi amici sconfiggerete questo virus?”, domandai.
Un altro fugace sguardo tra loro
“Sicuro che ci riusciranno, piccolo”, rispose mio padre.
Passarono le settimane. Mi accorsi di un sacco di cose che stavano cambiando. Prima di tutto le foto che mi mandava mamma dall’ospedale, con quell’assurda tuta da astronauta. Poi il flacone che papà teneva sempre in tasca e dal quale usciva un puzzolente gel trasparente con il quale si puliva le mani. Le mascherine in casa, dappertutto. Provai persino a farne indossare una al vecchio Full, il gatto ciccione, ma lui reagì con una zampata. A settembre presentai ai miei genitori l’invenzione perfetta: shampoo, detersivo per i piatti, acqua e profumo.
“Questo sconfiggerà il virus”, annunciai orgoglioso gonfiando il petto.
La mia straordinaria trovata non funzionò, credo. Una settimana dopo papà rientrò a casa a testa bassa e si chiuse in cucina con mamma.
“Il vicino è morto” disse pensando che non lo sentissi.
Morto. Il Signor Aversa morto. Era un simpatico vecchietto sempre intento a curare il suo giardino.
“Come stai, ragazzo?”, mi chiedeva accorgendosi che lo fissavo mentre era impegnato a strappare foglie e piantare semi.
“Tutto ok”, rispondevo sollevando le spalle. “Che sta piantando di bello?”
I telegiornali, la sera, ripetevano sempre la stessa cosa: il virus dilaga. L’età media dei decessi si abbassa vertiginosamente.
“Che vuol dire vertiginosamente?”
“Non vuol dire niente d’importante. Non preoccuparti.”
Eppure avevo come l’impressione di comprendere, non tutto forse, ma abbastanza.
I giornalisti si alternavano sullo schermo, da settimane.
“Si conferma il decesso di tutti gli over 80”.
Poi passarono agli over 70.
I miei amici, regolarmente presenti online, piangevano a turno.
“Il nonno”, ripeteva incessantemente uno di loro tenendo un fazzoletto di carta stretto in mano.
A novembre toccò a mia madre piangere. Io e papà l’abbracciamo in silenzio senza parlare. Non ce ne fu bisogno.
“I bambini”, disse un giorno un tale in Tv tra un colpo di tosse ed un altro. “Sembrano essere esclusi dalla trasmissione del virus.”
I miei genitori si voltarono e mi sorrisero, quasi rassicurati.
Tre giorni dopo anche loro presero a tossire. Mi spedirono a casa di un’amica.
“Appena staremo meglio tornerai a casa, non preoccuparti”, disse papà mentre chiudevo la portiera della macchina con lo zaino sulle spalle.
Fu l’ultima volta che lo vidi.
La casa di Matilde, con il passare del tempo, si riempì di bambini. Alcuni amici, altri sconosciuti. Si era persa traccia dei genitori e, capimmo al volo, avremmo dovuto cavarcela da soli.
Le prime notti furono tremende. Si sentiva il pianto dei più piccoli, celato sotto un cuscino, che straziava il cuore.
Una ragazza di nome Valentina, più o meno di vent’anni, ci portava da mangiare ogni tre giorni. Niente di eccezionale, generalmente wurstel, cibo in scatola e latte. Imparai a cucinare qualcosa e venni eletto a furor di popolo “Il cuoco”.
Poco prima di natale Valentina smise di venire.
Decidemmo di non farci troppe domande. Era chiaro a tutti cosa fosse successo e parlarne non avrebbe cambiato le cose.
La televisione non trasmetteva più nulla. Niente film, niente telegiornali. Niente di niente. Linee grigie che si rincorrevano ed un “biiiip” continuo. Staccammo la spina e uscimmo in strada.
Eravamo centinaia, migliaia, di bambini soli che si tenevano per mano mentre la neve cominciava a scendere nella semioscurità del primo mattino.
Niente luci natalizie, niente regali, niente alberi, cene e allegria.
Niente che potessimo permetterci di ricordare.
Guardai per l’ultima volta il pupazzo di Spongebob e gli sorrisi, prima di farlo cadere in terra.
“Abbiamo un mondo da ricostruire”, dissi a Gabry spalancando le braccia.
Lui mi sorrise, come un uomo:
“Cerchiamo di ricostruirne uno migliore”, annuì. “Altrimenti sembreremo due stupidi.”
Daniela Sibio
Alex Rebatto