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L’invasione fiscale, la ‘ndrangheta e la “leva” del Sud che lo Stato finge di non vedere

(continua dopo la pubblicità)

Ecco come funziona l’economia reale messa a punto dalle ‘ndrine e “tollerata” dallo Stato. Tutto raccontato in “Prodotto Interno Sporco”, il libro choc di Felice Manti ora in ebook per Algama. Ecco un capitolo in esclusiva per Fronte del Blog

 

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(Clicca sulla foto e vai all’ebook)

L’invasione fiscale

C’è chi gestisce un locale accantonando il nero e chi invece, come la ‘ndrangheta, utilizza il locale per ripulire i soldi del narcotraffico. Niente di più semplice. Per fare capire come è elementare riciclare basta fare qualche esempio. Alcuni anni fa. Città calabrese. Una discoteca. All’ingresso viene consegnata una tesserina di plastica. Ho diritto a una consumazione di default, viene fatto un buco. Entro, bevo ed esco.

Sulla mia tessera c’è un solo buco, pago 10 euro. E me ne vado. Dietro di me, la ragazza alla cassa fa più di una decina di buchi. Come se io avessi consumato 12 bevande. Inserisce il tesserino nella macchina, che emette lo scontrino: 120 euro. Dieci ce li ho messi io, gli altri 110 arrivano da chissà dove. Eccola, l’invasione fiscale. Si emettono più scontrini per riciclare il denaro sporco. Si denuncia di aver servito 100 caffè anziché 50. Dieci pizze anziché tre. Ogni giorno.

Tutti i giorni. Pagate le tasse, quel che resta è pulito. Non basta. Il contante che emerge trasforma in “nero” la merce. Perché se ho finto di vendere più caffè di quelli che ho realmente servito, in magazzino ho più caffè di quello che dovrei avere. Lo ricompro con una fattura falsa, magari ci pago l’Iva, intanto raddoppio il guadagno. Vale per la pasta, i superalcolici, le bibite, i condimenti, i fusti di birra, qualsiasi cosa. Vale anche per un supermercato, un negozio all’ingrosso. Qualsiasi esercizio.

E quando il bar fallisce, perché alla fine l’indole criminale prevale, i miei fornitori che ho regolarmente pagato mi fanno credito ma io non li pago, non pago le bollette, l’affitto, insomma decido di uccidere il locale perché magari è stato attenzionato dalle forze dell’ordine, uso quella merce per riavviare un’altra attività. Magari con un altro prestanome, magari nello stesso locale fisico. E mentre i tribunali fallimentari vanno a caccia di fantasmi io ho fatto sparire tutto. E intanto il nero genera nero ma genera anche Pil, in una spirale diabolica che fa prosperare le cosche. E dà da mangiare a chi ci lavora, garantendo un contratto regolare di lavoro. In più, siccome a me non serve guadagnare ma riciclare, per giustificare grandi numeri devo abbassare i prezzi. Così faccio dumping, cioè concorrenza sleale alle pizzerie o ai negozi o ai bar “puliti” della zona, che per starmi dietro devono abbassare i loro margini. Magari falliscono, magari no. Ma se falliscono c’è subito qualcuno che bussa alla loro porta con la borsa gonfia di cash. E il giochino si allarga. «È da mesi che dico che ci sono due problemi: le persone che da decenni guadagnano trenta euro al giorno e che ora non ci sono più con la ‘ndrangheta che si presenta come un benefattore, dà le buste della spesa, 100-200 euro, e quando sarà il momento di votare questa gente si ricorderà dei momenti di difficoltà e poi c’è il problema dell’usura», ha detto di recente il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Secondo il pm antimafia «le mafie che fanno usura non lo fanno per arricchirsi sull’usura: l’obiettivo finale dell’usuraio mafioso è quello di rilevare l’attività commerciale per poi fare riciclaggio».


Facciamo un altro esempio. Apre un negozio di scarpe. Di marca, magari. Ogni paio costa 200, 250 euro. Non è difficile. Come il caffè, ogni giorno la persona che lavora nel negozio deve provare a vendere qualche paio di scarpe. Ma ogni tanto deve ricordarsi di battere qualche scontrino finto, mettere un paio di scarpe nel magazzino e tirare fuori dal cassetto dei soldi sporchi l’equivalente dello scontrino. Alla fine, resteranno centinaia di scarpe. Vendute per lo Stato, ma anche no. Scarpe che fanno gola. Scarpe che sono il rovescio della medaglia: quello del welfare. Che cos’è il welfare se non “redistribuzione”. E come fanno le mafie a garantire la pace sociale? Redistribuendo la loro ricchezza. Non gratis, ovviamente.

Ma a basso, bassissimo costo. Ci sono negozi di scarpe o di abbigliamento che vendono capi decisamente sottocosto. Non c’è trucco e non c’è inganno. O meglio, basta la solita fattura falsa e il gioco è fatto.

La scarpa che ho ufficialmente venduto, magari privata della scatola, magari adeguatamente contraffatta con un bell’adesivo “scontata”, la ripropongo qualche mese dopo al 40%, al 30%, ma anche al 20% del suo valore reale. Ufficialmente le ho comprate da un distributore compiacente e anche in questo modo il guadagno è duplice. Il negozio magari usa gli studi di settore e paga le tasse su un reddito presunto e quindi lo scontrino è una specie di orpello, un’apparenza di legalità. In realtà io mafia faccio welfare perché ho dato un lavoro regolare. Faccio Pil. E ho dato un bene a poco prezzo a chi prima lo voleva ma non poteva permetterselo. Basta moltiplicare il meccanismo per N negozi e per N beni e il gioco è fatto. Nessun negozio “tradizionale” può reggere al confronto.

Nel frattempo, ho dato un lavoro regolare, con tanto di busta paga e contributi (su cui magari faccio la cresta…) a qualcuno che un giorno – quando bisognerà votare – me ne sarà grato, ho dato benessere a famiglie che diversamente non potrebbero permetterselo, ho tolto barili di benzina dall’odio sociale che sta infiammando le nostre periferie. E lo Stato, che non può non sapere, mi lascia fare. Anche perché il rischio è che senza questa “leva” il Sud potrebbe esplodere.

(Tratto da Prodotto Interno Sporco, di Felice Manti, Algama)

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