Giuseppe Conte può andare avanti a colpi di Dpcm sull’emergenza coronavirus? Siamo sicuri che siano costituzionali per il tipo di divieti che comportano? Ecco cosa dicono la legge e la Costituzione, nell’inchiesta di Rino Casazza
Di Rino Casazza
L’altro ieri tutte le agenzie di informazione hanno diffuso un video in cui Matteo Renzi, nell’aula del Senato, tuona contro l’incostituzionalità dei DPCM ( decreti del Presidente del Consiglio) emanati in relazione all’emergenza coronavirus.
Non è un’opinione isolata.
Dello stesso avviso sono non solo tutti gli esponenti dell’opposizione, ma anche autorevoli esperti di diritto costituzionale. Cito, tra i molti, Antonio Baldassarre, ex presidente della Suprema Corte, e Michele Ainis.
Vediamo di chiarire la questione.
La Costituzione repubblicana non disciplina lo “stato di emergenza”, intendendosi con questo una situazione in cui, per meglio fronteggiare un pericolo grave, il rapporto tra i cittadini e l’autorità e le regole di convivenza civile vengono più o meno estesamente modificati rispetto all’ordinario.
La nostra Carta fondamentale si limita a stabilire la procedura formale attraverso cui può essere instaurato un tipo particolare di stato di emergenza: lo “stato di guerra”. Si vedano a tal proposito, gli art. 78 e 87, che affidano al Parlamento il compito di deliberarlo e al Presidente della Repubblica quello di dichiararlo.
Si tratta del caso in cui la Nazione sia minacciata da un’aggressione militare. Ricordo che, a norma dell‘art. 11 della Costituzione , è vietata all’Italia una guerra di aggressione.
Anche per lo stato di guerra la Costituzione nulla dice sulle specifiche conseguenze che esso comporta sul funzionamento dello stato e sui diritti e doveri dei cittadini. Come stabilisce l’art 82, il compito di dare un contenuto allo “stato di guerra” viene demandato, caso per caso, al Parlamento, fatta eccezione per alcuni aspetti particolari:
- proroga della durata delle Camere in stato di guerra (art. 60);
- vigenza del codice militare di guerra (art. 103);
- sospensione, in stato di guerra, del ricorso in cassazione contro sentenze dei tribunali militari ( art. 111).
Con riferimento allo stato di emergenza sanitaria, quello che presentemente ci riguarda, si possono richiamare due articoli della Carta: 16 e 32.Il primo si occupa delle limitazioni che possono riguardare uno degli aspetti più significativi della libertà personale: quella di circolazione. Nel prevedere che questa libertà possa venir ridotta per motivi di sanità, la norma demanda alla legge il compito di determinare il contenuto della limitazione. Si tratta dell’argomento, forse un po’ ostico per i non giuristi, della “riserva di legge”. Ci torneremo.
L’art 32, invece, contiene una delle più solenni, e importanti dichiarazioni di principio, quella che eleva al più alto rango la salute, qualificandola come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.
Sembra indubbio che il “combinato disposto”, come si dice in diritto, di questi due articoli giustifichi che, nel caso di una pericolosa epidemia, non solo venga limitata la libertà di circolazione, ma si possa giungere al parziale sacrificio di altri diritti costituzionali d’importanza comparabile con quello alla salute.
Ma siamo sul piano astratto dei principi. Il problema è come, in concreto, questa “specialità” del diritto alla salute possa e debba venir declinata in situazioni emergenziali.
Scendendo dalla Costituzione al livello normativo inferiore, si incontra la legge 12 luglio 2012 n. 100 che disciplina, specificandone limiti di durata ed effetti, la “dichiarazione dello stato di emergenza” da parte del governo in conseguenza di eventi calamitosi. La durata massima è di tre mesi prorogabili una sola volta, mentre gli effetti riguardano l’attribuzione alla Protezione civile di funzioni di impulso e coordinamento sulle iniziative per far fronte all’emergenza, tra cui l’importante “potere di ordinanza”.
Questo consiste nella facoltà di emanare d’urgenza, in funzione di specifiche situazioni di pericolo, disposizioni che in via temporanea e per ambiti territoriali limitati deroghino alle leggi in vigore.
Eventualmente anche, se necessario, limitando la libertà di circolazione o altri diritti fondamentali. Si pensi al caso di un ponte pericolante, e di un’ordinanza che vieti il passaggio di automobili, anche se il codice della strada lo consente, e di persone, anche se ogni cittadino è libero di andare dove desidera.
Di nuovo, non ci sono dubbi che la legge sulla dichiarazione dello stato di emergenza sia in linea col principio costituzionale di tutela della salute.
Quanto al potere di ordinanza, più volte la Corte costituzionale si è espressa sul medesimo, reputandolo legittimo purché si esplichi per il tempo strettamente necessario a far fronte a un’urgenza improvvisa.
Segnalo, “en passant”, che per l’epidemia da coronavirus la dichiarazione di emergenza è stata adottata dal governo il 31 gennaio scorso.
Veniamo ai contestati DPCM del premier Conte.
Essi trovano la loro fonte giustificativa nel decreto legge 23 febbraio 2020, poi convertito in legge il 5 marzo successivo.
Questo provvedimento, al suo primo articolo, dettaglia tutta un serie di misure per contenere l’ escalation del contagio, molte delle quali sicuramente limitative di vari diritti di libertà garantiti dalla Costituzione.
All’articolo 3, il decreto delega il Capo del Governo a dare attuazione a queste misure con propri atti tipicamente regolamentari, appunto i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ho scritto “tipicamente regolamentari” per sottolineare che essi non possono essere considerati ordinanze non solo per il motivo formale che hanno un altro nome, ma anche e soprattutto perché si prevede che contengano norme generali e astratte, ovvero rivolte a categorie individualmente indifferenziate di destinatari ( i cittadini dei comuni contagiati, il personale degli asili ecc ecc.) senza indicare un termine.
E’ questo il contenuto dei regolamenti, terzo livello normativo dopo la Costituzione e le leggi.
Le ordinanze, per la loro particolare natura, sono atti amministrativi con un contenuto specifico. Per assurdo, potrebbero anche imporsi a singole persone individuate con nome e cognome.
A questo punto si innesta il problema della “riserva di legge”. Com’è facile intuire, questo termine significa che la Costituzione, con riferimento a certe materie, prevede che esse possano essere regolamentate solo attraverso l’atto tipico con cui si esprime la sovranità delle Camere: la legge.
Ora, l’articolo 16 della nostra Carta Fondamentale, già citato, recita: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”.
La riserva di legge balza agli occhi.
Quindi i DPCM di Conte contrastano con la Costituzione?
Va aggiunto che si tratta di provvedimenti emanati senza controfirma della Presidenza della Repubblica, cosicché non può essere nemmeno esercitato un controllo preventivo di legittimità da parte del Capo dello Stato.
Le cose non sono così semplici, perché i DPCM emergenziali del Premier non nascono dal nulla, ma sono autorizzati da una delega di legge ( art.3, già citato, della legge di conversione del decreto del 23 febbraio).
Il problema diventa: la riserva di legge di cui all’art 16 della Costituzione è “assoluta” o “relativa”?
Senza addentrarmi in una disquisizione giuridica, preciso che la riserva “assoluta” è compatibile solo con regolamenti pedissequamente attuativi di una legge, mentre quella relativa fa salvi i regolamenti c.d. delegati, ovvero autorizzati da una legge che fissi le norme generali regolatrici a cui essi devono sottostare.
Questo sembra proprio il caso dei DPCM emergenziali del Premier.
Problema risolto?
No, perché l’articolo 2 della legge del 5 marzo stabilisce : “Le autorita’ competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma 1.”
E’ evidente che il DPCM emanato dal Premier pochi giorni fa, che stabilisce le regole di progressivo sblocco del “lockdown” per passare alla c.d. “fase 2” dell’emergenza, tocchi materie sensibili, legate all’esercizio dei diritti di libertà, sulle quali la legge del 5 marzo non si esprime.
Un esempio: la mobilità interregionale riservata a coloro che si muovono per andare a trovare “congiunti” . Questa regola, che ha suscitato polemiche e ironie, non ha alcun aggancio nella legge di delega.
Il DPCM contiene parecchi altri casi simili.
Ne deriva che esprimere dubbi sulla sua legittimità costituzionale è fondato.
Bisogna aggiungere che si tratta di dubbi di legittimità formale, legati alla violazione della riserva di legge.
Nel merito, le misure adottate dal Presidente del Consiglio sono criticabili ma non può negarsi che vadano nella direzione di evitare il più possibile che l’epidemia si riaccenda, tutelando il “fondamentale” diritto alla salute, individuale ma anche collettivo a norma di Costituzione.
Sulla correttezza dei DPCM del Premier si è espressa, proprio ieri, la voce più autorevole: quella del Capo dello Stato.
Una nota del quotidiano La Repubblica ne riferisce l’opinione. Secondo Sergio Mattarella i decreti in parola non metterebbero in forse le libertà costituzionali. Il presidente della Repubblica reputerebbe la procedura dei DPCM dettata da esigenze straordinarie e del tutto nuove poiché , come si legge nell’articolo “L’epidemia del Covid 19, e soprattutto gli effetti che sta determinando, sono senza precedenti. E le risposte non possono che avere un carattere di novità, anche nella forma.“
Il Presidente riterrebbe, insomma, che lo strumento del DPCM, amministrativo e non legislativo, abbia permesso una rapidità di intervento adeguata all’urgenza, ed una opportuna flessibilità, poiché un regolamento può con più facilità essere emendato e aggiustato dalla fonte superiore, ovvero la legge, in un momento successivo. Così non è , evidentemente, per un decreto legge.
Il Capo dello Stato sembra tuttavia consapevole che il tempo dei DPCM sia destinato a terminare quanto prima. Ciò dovrebbe avvenire nel modo suggerito anche da Michele Ainis (vedi qui) ovvero col ricorso a un decreto legge che riunifichi e raccordi la materia emergenziale coronavirus, eliminando così ogni possibile vizio di forma.
Ciò sembra necessario anche per un ulteriore problema: il conflitto tra i DPCM del Premier e le ordinanze dei governi locali che, come tutti sanno, diversamente dispongono sui tempi di ripresa dell’ attività da parte dei vari settori merceologici, e non è chiaro quale dei due debba prevalere.
Rino Casazza
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