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Coronavirus, il complottismo russo sul batterio Synthia, complice letale del Covid-19

Le teorie complottiste sul virus che terrorizza il mondo

(continua dopo la pubblicità)

Davvero il misterioso batterio Synthia contribuirebbe a rendere letale il coronavirus? Il complottismo che arriva dalla Russia ancora al centro del dibattito

 

Di Rino Casazza

Siamo  in attesa che qualcuno, traducendo  l’intervento della  biologa russa Irina Ermakova pubblicato su Youtube, in un video già virale (qui sopra) permetta di capire se e in che termini sia fondata la denuncia attribuita a questa ricercatrice dall’avvocato suo connazionale Eugenii Imenitov.

In un altro video disponibile su Youtube, quest’ultimo personaggio, finora sconosciuto, sostiene che la dottoressa Ermakova abbia scoperto che la pandemia in atto non sia causata dal solo virus “covid-19, ma da questo in “cooperazione” con il batterio synthia.  (QUI ABBIAMO RACCONTATO LA VICENDA)

Si possono recuperare informazioni su synthia sia su Wikipedia che nella pubblicistica scientifica. Per esempio si vedano, tra i molti,  questo articolo del 2010 , o quest’altro, più recente, del 2016.

Il batterio è così conosciuto dagli studiosi che siamo già alla sua versione 3.0.

Tutto è iniziato alla fine del primo decennio del secolo corrente, quando il prestigioso Istituto J. Craig Venter  della California, guidato dal microbiologo  premio Nobel Hamilton Smith,  avviava un progetto d’avanguardia per scoprire il cosiddetto “genoma minimo”, ovvero la dotazione genetica essenziale per consentire a un microrganismo di vivere.

La ricerca è stata condotta su un batterio chiamato Mycoplasma Genitalium in quanto,  tra quelli conosciuti, ha il minor numero di geni: 483.
L’obiettivo era stabilire con quanti in meno rispetto alla  dotazione “naturale” sarebbe riuscito a sopravvivere.
Il gruppo di progetto è arrivato a mantenere in vita un M. Genitalium con 283 geni.
Va sottolineato che la funzione di molti di questi geni basici rimane sconosciuta agli scienziati.
Tuttavia si è ben presto scoperto che il M. Genitalium era inaadatto alla sperimentazione perché cresceva troppo lentamente. Così si è passati a un altro, il Mycoplasma Mycoides, con un numero di geni sensibilmente superiore , quasi il doppio, sul quale è stato svolto lo stesso procedimento.

Poiché l’appetito vien mangiando, e le ricerche partite con uno scopo spesso finiscono per prendere altre strade, nel 2010 l’Istituto J. Craig Venter  ha suscitato grande scalpore annunciando di aver fatto qualcosa in più che “scremare” i geni non strettamente necessari ad un microorganismo vivente. Una volta “smagrito” al massimo il M. Mycoides, riducendo il suo genoma a 473 geni (comunque assai di più dei 283 del M. Genitalium in versione “light”), avevano pensato bene di trapiantare il “mini” M. Mycoides nella cellula, svuotata di DNA, di un altro batterio , il Mycoplasma Carpiculum. Come dice il nome, si tratta di un microorganismo che “infetta”  le capre. Il termine “infetta” è da intendersi nel senso di “penetra nell’organismo”, senza necessariamente portare a conseguenze patologiche.

En passant faccio notare che il M. Genitalium “infetta” l’uomo, mentre il M. Mycoides i ruminanti.

Il risultato del trapianto era un batterio nuovo, non esistente in natura, chiamato JCVI-syn1.0 o Synthia per la sua origine sintetica, ovvero artificiale.

La notizia del nuovo nato ha immediatamente aperto un dibattito, allo stesso modo di quanto abbiamo raccontato essere avvenuto per la creazione in laboratorio del virus “covid-15”, sulla liceità di  esperimenti cosiddetti “dual use”, ovvero potenzialmente nocivi pur avendo finalità positive.

Come in quest’ultimo caso, anche in quello di “synthia”, ampie rassicurazioni sono state fornite da parte dell’Istituto J. Craig Venter  circa gli scopi benefici del progetto. In particolare si è specificato che si puntava a far svolgere al neonato batterio “basico”  funzioni utili all’umanità. Ad esempio si sarebbe potuto, “innestando” in Synthia altri geni ad hoc, metterlo in condizioni di produrre sostanze interessanti dal punto di vista farmaceutico, o addirittura permettergli  di “degradare” il petrolio in caso di inquinamento da idrocarburi

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Le obiezioni a Synthia  sono rimaste fortissime, basate sull’argomento, a mio parere  molto persuasivo, che, prima di aver capito esattamente come funziona il genoma, qualsiasi fuga in avanti era inopportuna ed anzi pericolosa.

Balza agli occhi, infatti, la già evidenziata mancata conoscenza, in biologia, sulla funzione specifica di molti geni presenti del genoma minimo.

Il rischio di scatenare conseguenze imprevedibili “mescolando i geni” sembra molto alto.
Da allora, perlomeno ufficialmente, risulta che si sia andati coi piedi di piombo.
L’Istituto J. Craig Venter ha prodotto una versione più evoluta di Shyntia, la 2.0, e, quattro anni fa, è arrivata la 3.0.
A possibili applicazioni è stato posto un freno.
Ma, appunto, l’avvocato Imenitov  lancia un allarme sostenendo esserci evidenze, confermate dagli studi della dottoressa Ermakova, che, in segreto, già la versione 1.0 di Synthia, nel 2011, sarebbe stata liberata nelle acque del Golfo dei Caraibi in occasione del disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon.
Lo farebbe sospettare che tra i finanziatori del progetto Synthia ci sarebbe la multinazionale British Petroleum, responsabile dell’incidente.

Il nuovo batterio sintetico avrebbe dovuto, voracemente “mangiandosi” il petrolio sversatosi in acqua, ridurre l’inquinamento.

Solo che poi qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto.

Il Synthia spazzino del mare sarebbe mutato, o comunque avrebbe cominciato ad aggredire, facendone scempio, la fauna marina. Inizialmente solo quella del Mar dei Caraibi ma poi, piano piano, si sarebbe diffuso in tutti i mari del mondo, fino ad arrivare al Mar della Cina, dove ci sarebbe notizia di una recente, anomala moria ittica.

L’incontro nefasto col covid-19  sarebbe avvenuto qui.

Una surreale storia di fantabiologia, con protagonista un batterio che, creduto vegetariano, si rivela poi carnivoro.

Rino Casazza

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Rino Casazza

Rino Casazza è nato a Sarzana, in provincia di La Spezia, nel 1958. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Pisa, si è trasferito in Lombardia. Attualmente risiede a Bergamo e lavora al Teatro alla Scala Di Milano. Ha pubblicato un numero imprecisabile di racconti e 15 romanzi che svariano in tutti i filoni della narrativa di genere, tra cui diversi apocrifi in cui rivivono come protagonisti, in coppia, alcuni dei grandi detective della letteratura poliziesca. Il più recente è "Sherlock Holmes tra ladri e reverendi", uscito in edicola nella collana “I gialli di Crimen” e in ebook per Algama. In collaborazione con Daniele Cambiaso, ha pubblicato Nora una donna, Eclissi edizioni, 2015, La logica del burattinaio, Edizioni della Goccia, 2016, L’angelo di Caporetto, 2017, uscito in allegato al Giornale nella collana "Romanzi storici", e il libro per ragazzi Lara e il diario nascosto, Fratelli Frilli, 2018. Nel settembre 2021, è uscito "Apparizioni pericolose", edizioni Golem. In collaborazione con Fiorella Borin ha pubblicato tre racconti tra il noir e il giallo: Onore al Dio Sobek, Algama 2020, Il cuore della dark lady, 2020, e lo Smembratore dell'Adda, 2021, entrambi per Delos Digital Ne Il serial killer sbagliato, Algama, 2020 ha riproposto, con una soluzione alternativa a quella storica, il caso del "Mostro di Sarzana, mentre nel fantathriller Al tempo del Mostro, Algama 2020, ha raccontato quello del "Mostro di Firenze". A novembre 2020, è uscito, per Algama, il thriller Quelle notti sadiche.

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