Il clamoroso errore nell’identificare il focolaio del coronavirus e ciò che gli esperti hanno ignorato dello studio cinese del 24 febbraio. Il Covid-19 sembra un orologio svizzero. E diventa sempre più forte. Dati alla mano, ecco perché.
Quando venne diffuso il primo studio dei medici cinesi sul coronavirus (SCARICALO), elaborato con l’ausilio di scienziati internazionali di molti altri Paesi, evidentemente gli esperti del comitato scientifico governativo non lo lessero a fondo. Tantomeno i politici locali e nazionali preposti alla salute pubblica.
Era, lo si rammenti bene fin d’ora, il 24 febbraio. E all’interno dello studio vi era una considerazione piuttosto importante: a Wuhan, culla del focolaio, il tasso di mortalità era del 5,8%. Questo tasso di mortalità, proseguiva lo studio, andava degradando nelle altre aree della Cina fino a scendere allo 0,7%, ma variava in base all’intensità della trasmissione, ovvero in base alla densità della popolazione.
E questa è la premessa.
Ora torniamo in Italia.
IL PAZIENTE 1
Il 21 febbraio il cosiddetto Paziente 1 fu scoperto al pronto soccorso di Codogno, ma soltanto al suo secondo arrivo in ospedale: qualche giorno prima era stato dimesso. Il giorno dopo si sapeva già che la persona che lo aveva contagiato non era verosimilmente il manager che, tornato dalla Cina, lo aveva incontrato il 21 gennaio. E dunque non si aveva idea di chi potesse essere il cosiddetto Paziente 0. Ventiquattro ore più tardi, ossia il 23 febbraio, Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene all’Università di Pisa, avvertiva: «è verosimile che in Italia siamo già, ormai, alla terza generazione di casi».
L’avvertimento cadde nel vuoto.
Il 25 febbraio il Covid-19 aveva già raggiunto 9 regioni e fatto 11 vittime su 328 positivi.
Dissero che la mortalità era alta perché avevamo una popolazione anziana, ma non era vero (il Giappone è lo Stato con la popolazione più anziana del mondo e ha una mortalità estremamente più bassa della nostra). Al Governo era tuttavia ancora il tempo di «siamo pronti all’emergenza da mesi», per il comitato scientifico e gli esperti che apparivano in tv il coronavirus era solo «poco più di una forte influenza» e il premier Giuseppe Conte ebbe così gioco facile nell’accusare l’ospedale di Codogno di non aver eseguito correttamente i protocolli. Non era vero nemmeno questo.
Neppure la Regione Lombardia si accorse minimamente del rischio. Tanto che fu chiesta e ottenuta una zona rossa molto limitata, ma che una rapida lettura dello studio cinese avrebbe dovuto portare ad identificare già come largamente insufficiente.
Eppure, non trovando il Paziente 0, avrebbero dovuto dar retta al professor Lopalco sul fatto che eravamo di fronte alla «terza generazione di casi». Dunque ad una diffusione molto profonda nel territorio. E che quindi bisognava circoscrivere sì un focolaio, ma di ben altra grandezza.
LA QUESTIONE DEL FOCOLAIO
Il focolaio è infatti il dettaglio più importante che lo studio cinese evidenziava.
Partiamo dall’Italia. Furono identificati una decina di comuni intorno a Codogno, una cittadina che si estende per meno di venti chilometri quadrati. E il Comune di Vo’, in Veneto. In totale, una manciata di ettari.
Ma Wuhan, considerato il focolaio cinese, si estende su quasi 9mila chilometri quadrati e la mortalità del 5,8% era tale per tutta la vastità di quel territorio, non per una minima parte.
Non solo.
In Cina venne messa in quarantena l’intera provincia di cui Wuhan è capoluogo, ossia la provincia di Hubei, che si distende per circa 186mila chilometri quadrati, area nella quale la mortalità cinese si attestava ovunque intorno al 2,9%, per poi degradare fino allo 0,7% nelle altre zone della Cina.
Ed ecco il punto: se noi prendiamo tutte insieme le regioni italiane con la più alta mortalità e che formano un unico gruppo contiguo, ossia Lombardia (23863 chilometri quadrati), Emilia (22452), Piemonte (25387), Marche (9401) e Liguria (5416) arriviamo a coprire poco più della metà della superficie messa in quarantena dalla Cina. Ad esse va aggiunto il Veneto, con una superficie di 18345 chilometri quadrati, ma che rappresenta un caso a parte che vedremo più tardi.
In ogni caso è evidente che, seguendo i dati provenienti dalla Cina sulla mortalità per grandezza di territorio, avremmo dovuto mettere subito in quarantena non già il focolaio minuscolo del lodigiano, ma quantomeno sei regioni contigue, che tutte insieme non arrivano che a coprire che poco più della metà dello Hubei.
OTTO VOLTE
Il motivo è presto detto: i cinesi calcolarono che a Wuhan il tasso di mortalità fosse fino a 8 volte superiore al resto della Cina. Non una, non due volte: ma 8 volte. E questo tasso di mortalità si estendeva non su una superficie di pochi ettari come nel lodigiano, ma su quasi 9mila metri quadrati.
Ancora: se nel resto della Cina scendeva a 0,7, nell’intero Hubei la mortalità risultava appena la metà di Wuhan, il 2,9%. Ovvero per 186mila metri quadrati (quasi il doppio delle estensioni delle sei regioni italiane messe insieme) la mortalità restava altissima, pari a 4 volte il resto della Cina.
Il punto iniziale della ricerca è proprio questo: il Governo e la Regione Lombardia, pur avendo dati scientifici a disposizione, hanno in sostanza recintato un garage al posto di un’intera metropoli ammalata.
IL CASO VENETO E LA DENSITÀ DELLA LOMBARDIA
E veniamo alla questione Veneto. Se la Lombardia al 21 marzo ha un tasso di mortalità del 12,1%, l’Emilia del 10.6%, le Marche del 7,1%, il Piemonte del 6,3% e la Liguria del 10,5%, il Veneto ha invece una mortalità molto più bassa: del 3,1%. Perché?
Anche su questo lo studio cinese era piuttosto esplicito: il valore complessivo di mortalità (crude fatality ratio o cfr) variava in base all’intensità di trasmissione. Il che sembrerebbe significare che laddove il virus trova più densità di popolazione o riesce a trasmettersi più velocemente, riesce anche a diventare più cattivo. Non sappiamo se questa sia un’ipotesi plausibile. Di certo però su 3mila tamponi fatti, la Regione Veneto ha trovato 84 superdiffusori asintomatici e ha bloccato l’aumento esponenziale che in Lombardia è andato invece avanti per molto tempo: arrivando ad avere non solo un sesto dei contagiati lombardi, ma un tasso di mortalità quattro volte inferiore.
Vi è una seconda certezza: Wuhan ha una densità di 795 abitanti per chilometro quadrato. E tra tutte le regioni prese in considerazione la Lombardia è quella che, oltre ad avere il tasso di mortalità più alto, ha anche la densità di gran lunga più alta: 422 abitanti per chilometro quadrato.
In sostanza, ha tutte le caratteristiche del focolaio di Wuhan, dove la mortalità era molto, ma molto più alta del resto della Cina.
LE MISURE DI CONTENIMENTO PRESE IN LOMBARDIA
Mentre Robert Gallo, l’uomo che scoprì l’hiv, sosteneva che il coronavirus si stesse curiosamente spostando da est a ovest e non da nord a sud e parlava di una misteriosa mortalità più alta nel nostro Paese, in Italia gli esperti più allarmisti parlavano ora di una mortalità del 2% e di decessi “con il covid” e non “di covid” (una scemenza smentita dal professor Andreoni, qui).
Eppure, a marzo inoltrato e senza ancora misure di contenimento prese dal Governo, tutti erano tenuti a sapere che nell’area del focolaio di Wuhan, esteso su 9mila metri quadrati e non su una manciata di ettari come nel lodigiano, la mortalità era del 5,8% (si ricordi che lo studio fu pubblicato il 24 febbraio).
E che quindi andava circoscritta una zona rossa ben più vasta.
Ma per venti giorni il Governo varò una serie di provvedimenti demenziali, in diretta Facebook senza contraddittorio e strizzando l’occhio alla politica cinese invece che alla scienza cinese, decretando pene sempre più pesanti per i trasgressori invece, semplicemente, di chiudere tutto e di non dare così motivi alla gente per stare in giro.
Da parte sua, la Regione Lombardia, invece di decretare autonomamente la zona rossa almeno per i Comuni di Alzano e Nembro, dove si moriva come mosche, attese invano l’approvazione dell’esecutivo. Un secondo errore imperdonabile, che, ad esempio, l’Emilia non ha compiuto, cintando subito una zona rossa intorno al Comune di Medicina.
Poi però le misure sono finalmente arrivate, anche se solo parziali.
E i risultati arrivano: come abbiamo raccontato, la percentuale di aumento del contagio giornaliero si è più o meno dimezzata, passando dal 27,6% a circa il 14%.
Se quelle misure non ci fossero state e la percentuale fosse rimasta al 27,6%, al 21 marzo la Lombardia non avrebbe 25515 contagiati, ma poco più di 83mila.
Se le avessero prese per tempo, queste misure, verosimilmente avremmo un terzo di contagiati e molti meno morti.
Tant’è, le istituzioni sembrano stupite che i numeri siano ancora alti: eppure un qualsiasi modello matematico che anche un liceale è capace di leggere, dava esattamente questi risultati.
Ieri, dopo quasi 5mila morti (3095 dei quali in Lombardia) prima la Regione Lombardia, poi il premier Conte (dalla solita diretta in solitaria su Facebook), hanno annunciato una nuova stretta sulle misure: ma ci vorranno altre due settimane per vedere i risultati.
Quello che è certo è che, se almeno i tempi della quarantena da 14 giorni li hanno calcolati con esattezza (un nuovo studio cinese li sposta di una settimana) fra al massimo due giorni, la percentuale di contagio almeno in Lombardia crollerà e andrà calcolata solo su quel 40% che ha continuato ad uscire costantemente per le più svariate ragioni (lavoro, salute, necessità, violazioni). Una percentuale, quest’ultima, rilevata dalle ricerche della Regione sulle celle telefoniche. Attenzione, crollerà la percentuale di contagio, non i contagi.
Quindi, ce lo dicono i dati, la prima causa della mortalità altissima nelle regioni del nord è l’area del focolaio stesso e la mancanza di argini iniziali alla sua diffusione (tranne che in Veneto).
IL CORONAVIRUS, UN OROLOGIO SVIZZERO
Resta naturalmente la domanda più importante: perché in Lombardia e in Emilia (ma anche in Liguria, Piemonte e Marche) la mortalità non è simile, ma molto più alta del 5,8% di Wuhan? Abbiamo rilevato da subito il dato delle regioni del Po, smentendo i luoghi comuni tirati fuori nientemeno che da alcuni scienziati e abbiamo analizzato per primi lo strano caso di Madrid (dove il contagio ha un ritardo di 9 giorni sull’Italia), che ha un passo analogo a quello della Lombardia: sia per i contagi che per i morti.
Quest’analogia, unica al mondo, ci viene confermata giorni più tardi, dandoci ragione.
Guardiamo infatti la progressione tra le due aree, tenendo presente i 9 giorni di distanza del contagio:
1) Il 9 marzo in Lombardia c’erano 5469 e 333 morti. Tasso di mortalità al 6% (GUARDA)
Il 18 marzo Madrid aveva 5637 contagi e 390 morti. Tasso di mortalità 6,9%
2) L’11 marzo in Lombardia c’erano 7280 contagi e 617 morti. Tasso di mortalità all’8,4%
Il 20 marzo Madrid aveva 7165 contagi e 628 morti. Tasso di mortalità all’8,7%
3) Il 12 marzo in Lombardia c’erano 8717 contagi e 744 morti. Tasso di mortalità all’8,5%
Il 21 marzo Madrid aveva 8921 contagi e 804 morti. Tasso di mortalità al 9%
È impressionante: il Covid-19 sembra un orologio svizzero per la precisione con cui contagia e uccide allo stesso modo nelle due aree-focolaio.
Dall’andamento giornaliero di Madrid il Covid-19 sembra anzi leggermente più feroce che in Lombardia. Può essere che sia un caso.
Del focolaio di Madrid sappiamo però quattro cose con certezza:
La prima è che la densità della provincia omonima della Capitale spagnola è il doppio della regione lombarda (830 persone per chilometro quadrato, superiore anche a Wuhan), dettaglio che andrebbe così a ratificare ancora una volta lo studio cinese sull’intensità di trasmissione.
La seconda è che il primo contagio di Madrid giunse il 26 febbraio da un uomo che era stato nel Nord Italia.
La terza è che il clima di Madrid è completamente diverso da quello lombardo.
La quarta è che Madrid ha gli ospedali più avanzati della Spagna, esattamente come li ha la Lombardia.
Citiamo quest’ultimo particolare perché la virologa Ilaria Capua aveva avanzato a Dimartedì un’inquietante ipotesi in merito alla mortalità lombarda: «Io credo che, come al solito, la risposta non sia bianca e nera. Per esempio, questo è un virus che si trasmette per via aerea, quindi con le droplet e quindi sappiamo che virus simili a questi hanno provocato dei problemi nei sistemi di aerazione degli alberghi. Allora, è possibile che magari gli ospedali che gestiscono questi focolai molto grandi abbiano degli impianti di aerazione che non siano al livello tale da garantire la sicurezza di persone che magari sono immunodepresse?» Ci eravamo così già chiesti, data la qualificatissima fonte: è possibile che in questi ospedali avanzatissimi, lombardi come madrileni, siano state introdotte delle innovazioni negli impianti di aerazione che possano portare ad un riscontro all’ipotesi della virologa?
Di risposte, noi non possiamo darne.
C’è però un ulteriore dettaglio curioso, cui abbiamo fatto cenno:
Il focolaio di Wuhan aveva una mortalità al 5,8%.
Quello lombardo è al 12,1%. Ma quello lombardo sembra essere addirittura inferiore, in prospettiva, a quello madrileno – luogo dove il coronavirus è giunto 9 giorni più tardi – di mezzo punto percentuale.
Nell’ipotesi in cui la differenza tra Lombardia e Madrid fosse appunto solo un caso, non è però certamente un caso che la mortalità sia in queste due aree europee più alta che a Wuhan.
Nell’ipotesi in cui invece questa differenza aumentasse e a Madrid la mortalità diventasse superiore a quella lombarda, allora potremmo supporre che il Covid-19 diventa più cattivo ad ogni focolaio: lo stesso ceppo che forse è arrivato direttamente da Wuhan in Lombardia e che però certamente dal nord Italia (verosimilmente proprio dalla Lombardia, dato che parliamo del 26 febbraio) è giunto a Madrid.
È quindi un’ipotesi plausibile che il virus sia mutato e muti in maniera più cattiva ogni volta?
Al momento non vi è alcuna prova. Ma Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano (la stessa che ancora il 12 marzo paragonava il coronavirus all’influenza scontrandosi con il virologo Roberto Burioni), non lo esclude e dice all’Adnkronos: «In Lombardia c’è qualcosa che non comprendiamo. Si sono superati i morti della Cina in un’area infinitesimamente più piccola e in un tempo minore. Sta succedendo qualcosa di strano. In Lombardia c’è un’aggressività che non si spiega. Le ipotesi possono essere tutte valide, una è che il virus sia forse mutato».
IL FIORE ALL’OCCHIELLO DELLA SANITÀ. FORSE
Purtroppo verso l’ipotesi che il Covid-19 muti in maniera più cattiva ad ogni focolaio, ci deve portare un’altra considerazione: sembra che in Lombardia non siano tutti morti solo per il Covid-19, ma anche per altro, che con il morbo ha a che fare solo in parte. I racconti di chi vive sulla linea del fronte sono ormai diversi. Un’infermiera, anonimamente, ha dichiarato a Libero: «I pazienti arrivano con difficoltà respiratorie e sembrano “normali” ma un’ora dopo “precipitano”, li intubiamo e in un attimo somigliano a zombi. Per farli respirare li “proniamo”, li mettiamo a pancia in giù per tante ore, serve per “reclutare” il polmone, quando li giriamo hanno i volti trasfigurati per la pressione, non sono più loro». Ma poi ha aggiunto: «Gli intubati ovviamente sono costantemente addormentati, li sediamo, il problema sono gli altri 50. Se uno di quelli “precipita” e ha bisogno di essere intubato non trova posto. Il timore è di dover arrivare a fare delle scelte tra giovani e meno giovani, da altre parti lo stanno già facendo, e comunque dalla terapia intensiva ne torna uno su due».
L’anestesista Christian Salaroli, dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, al Corriere della Sera aveva già detto che non su tutti si proseguivano le terapie:
«Siamo obbligati a farlo. Nel giro di un paio di giorni, al massimo. La ventilazione non invasiva è solo una fase di passaggio. Siccome purtroppo c’è sproporzione tra le risorse ospedaliere, i posti letto in terapia intensiva, e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati. Diventa necessario ventilarli meccanicamente. Quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati, ovvero messi a pancia in giù, perché questa manovra può favorire la ventilazione delle zone basse del polmone». E non esiste regola scritta: «Per consuetudine, anche se mi rendo conto che è una brutta parola, si valutano con molta attenzione i pazienti con gravi patologie cardiorespiratorie, e le persone con problemi gravi alle coronarie, perché tollerano male l’ipossia acuta e hanno poche probabilità di sopravvivere alla fase critica».
Erano scoppiate polemiche, smentite. Non una traccia d’inchiesta, solo un esposto del Codacons in Procura. Ma ad inquietare c’è anche un’altra intervista del Corriere della Sera, stavolta al professor Fabiano De Marco, 46 anni, primario di pneumologia sempre al Papa Giovanni. Ecco il passaggio cruciale:
Per i caschi respiratori come avete fatto?
«All’inizio ne avevamo 20. Abbiamo cominciato a cercare. Niente, finito tutto. Sabato 7 marzo mi ricordo che 15 anni fa avevo conosciuto il titolare di una piccola azienda familiare di Levate, che faceva impianti ad ossigeno. Gli telefono: siamo disperati».
Risposta?
«Ne ho dieci, li sistemo e ve li porto lunedì. Lunedì è tardi, lo supplico. Mi faccia chiamare i miei ragazzi, li monto e arriviamo subito, dice. Vergognandomi, gli dico che me ne servono ancora. Lui: mi dia tre ore e gliene faccio altri nove».
E oggi?
«Ne abbiamo 139, siamo l’ospedale più fornito d’Europa. Grazie a lui. Dice che fa solo quel che gli hanno insegnato i suoi genitori. Gente così».
Quanti decessi al giorno?
«Ormai tra 15 e 20. Venerdì 13 marzo il peggiore, finora».
Della totale assenza di Roma all’emergenza lombarda abbiamo scritto in abbondanza.
Ma, se tutto questo è vero, dove sarebbe il fiore all’occhiello della sanità italiana?
Ma davvero un primario di pneumologia in piena emergenza è stato costretto a ricordarsi di una conoscenza di 15 anni fa per ottenere i caschi respiratori?
E il 7 di marzo? Significa che fino al 7 marzo l’ospedale di Bergamo non ne ha ricevuti?
Cos’hanno fatto in Regione e al Governo fino al 7 di marzo, mentre a Bergamo si moriva come mosche? Nemmeno sono stati capaci di contattare un’azienda di Levate (non straniera!) che produce impianti a ossigeno e si è dovuto arrangiare un primario nel pieno del marasma?
Ma davvero?
Ma non basta. Non si muore nelle zone calde solo perché qualcuno non riceve le cure negli ospedali, che devono pure cercarsi le attrezzature in proprio. C’è proprio aria di abbandono. Non è peraltro la prima volta che accade: già il 22 febbraio (il giorno dopo il primo caso di Codogno!) denunciavamo qui sopra l’assenza di mascherine obbligatorie negli ospedali. E il 28 febbraio pubblicavamo integralmente (cosa che i giornali non fecero, lasciando fuori la parte più cruenta) la denuncia di due dottoresse dalla zona rossa inviata alla Federazione dell’Ordine dei Medici. E ora il sindaco di Codogno Francesco Passerini, sempre al Corriere della Sera dice: «Di difficoltà ne abbiamo avute e vuole sapere una cosa? Nei 15 giorni del nostro isolamento, e anche dopo, nessuno è venuto ad aiutarci. Nessuno. Solo qualche giorno fa sono arrivati quattro medici dell’esercito. Nient’altro».
Il fiore all’occhiello.
L’articolo più angosciante sull’argomento (se ne vedrà più avanti la cruciale importanza) è però del Fatto Quotidiano. Si sostiene che «nel momento in cui le condizioni degenerano l’87% dei deceduti lombardi non è riuscito nemmeno ad arrivare alle terapie intensive». Poi, il passaggio più terribile:
Il telefono squilla, il 118 raccoglie la telefonata che recita: “Ho un parente che sta male, fatica a respirare, non ha ancora fatto il tampone”. La chiamata viene raccolta. Si vorrebbe partire subito per il domicilio, ma di questi tempi le attese durano troppo. Anche sette ore. Fino a che la stessa persona, che nel nostro caso telefona dalla provincia di Bergamo, richiama per avvertire: “Lasciate stare, è deceduto”. Lo si sussurra, non ci si arrabbia nemmeno più né si minacciano vie legali per il ritardo, solo si prende atto e anzi si consiglia all’operatore di liberare l’ambulanza.
Per un mese ci hanno detto che la mortalità è certamente più bassa di quelle che mostrano ora le statistiche, perché i contagi (è una stima) sarebbero molti di più.
Però lo studio cinese fu fatto a metà del contagio e i numeri snocciolati erano precisi: e al limite, tutto va in proporzione.
Di più. Adesso sappiamo anche altro, dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, lo stesso che il 26 febbraio scriveva “Bergamo non ti fermare!”. E che ora, tardivamente pentito, dice all’Huffington Post: «In alcuni comuni il numero dei decessi attribuibili all’epidemia è all’incirca quattro volte quello ufficiale. In questa provincia il numero dei decessi a causa del virus è di gran lunga superiore a quello delle statistiche ufficiali. Molti malati anziani muoiono di polmonite a casa loro, o nelle case di riposo, senza che nessuno abbia fatto loro un tampone, né prima né dopo il decesso».
Ben svegliato anche a lui, qualche migliaio di morti più tardi.
La cosa che ci interessa di più è però un’altra: il tasso di mortalità in Lombardia non è sovrastimato, ma al contrario sottostimato. I decessi sono molti di più. Ma, ed è questo il punto, non solo a causa del morbo: perché pare che i medici senza strumenti debbano scegliere chi salvare, perché a volte l’ambulanza non va nemmeno più a prenderli i pazienti, perchè nemmeno rientrano nelle statistiche, perché lo dice l’aumento esponenziale del numero dei decessi nelle province bergamasche.
La conclusione è dunque che una forte concausa al tasso di mortalità in Lombardia rispetto a Wuhan sarebbe dovuta alla mancata assistenza sanitaria e non al morbo in sè.
E questo dato cosa ci porta a dire?
Che a Wuhan la mortalità era al 5,8%, che in Lombardia è più alta, ma (proprio per le concause del crac della sanità lombarda) non alta quanto a Madrid.
Dunque, pare oggi piuttosto chiaro che ogni volta che il coronavirus accende un focolaio, diventa più forte.
Il perché ce lo diranno gli scienziati.
Dubito che saranno quelli del comitato scientifico.
Edoardo Montolli
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