In un recente post mi sono occupato della disputa sul c.d. “complotto lunare”, in relazione all’uscita, l’anno scorso, di un film celebrativo del primo sbarco umano sul nostro satellite, “The first man” e, soprattutto , di un documentario, “American Moon”, firmato da Massimo Mazzucco, sintesi delle argomentazioni di quanti, e non sono pochi, ritengono che le Missioni Apollo non abbiano mai portato astronauti sulla Luna.
La presentazione di American Moon:
A dieci giorni dal cinquantesimo anniversario del primo allunaggio, avvenuto il 20 luglio 1969, com’era prevedibile, la polemica sta cominciando a riaccendersi.
Prova ne è l’ uscita sul Fatto Quotidiano, qualche giorno fa, di un articolo “filocomplottista” basato su American Moon, a firma di Ivo Mej. Come segnala il sito Dagospia, non si è fatta attendere una risposta sul proprio blog da parte di Paolo Attivissimo, il principale esponente italiano della divulgazione giornalistica “pro” sbarco lunare.
Mej riprende alcuni argomenti complottisti.
Su uno, l’attendibilità o meno delle foto scattate dagli astronauti durante le missioni, mi sono già diffuso nel post “Lunacomplottisti vs lunaconquistatori”: chi ha scattato davvero le foto sulla Luna? E dove?”
Attivissimo replica direttamente ad altri due: un presunto costoso regalo fatto dalla Nasa al regista Stanley Kubrik, e il presunto sospetto rifiuto degli astronauti delle missioni Apollo a giurare solennemente sulla Bibbia che la loro discesa sulla Luna è veramente avvenuta.
Riguardo al primo argomento, è accertato che la Nasa fornì al grande regista un obiettivo particolare per le sue sofisticate riprese nel film Barry Lindon, ma dietro congruo compenso.
Per comprendere l’importanza del dettaglio, ai fine della dimostrazione del complotto, bisogna sapere che secondo un filone “lunacomplottista” il regista delle false riprese televisive del primo sbarco sarebbe stato proprio Kubrik.
Riguardo al secondo argomento, è disponibile su youtube un video in cui “Buzz” Aldrin, il secondo uomo a mettere piede sul nostro satellite, assesta un pugno in faccia a un “lunacomplottista”, esasperato dalla corte assidua, sconfinante nello “stolkeraggio”, di questi, che gli si parava davanti in continuazione, Bibbia in mano, chiedendo che giurasse davanti alle telecamere sulla genuinità delle sue imprese spaziali
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Non solo Aldrin ma anche gli altri due protagonisti della prima missione lunare, Neil Armstrong e Michael Collins, si sono sempre rifiutati di aderire alla richiesta ritenendola, legittimamente, un’inaccettabile buffonata.
Altri astronauti partecipanti a missioni lunari hanno invece, documentatamente, giurato. Nell’articolo di Mey si fa accenno ad altri due argomenti complottisti, per i quali Attivissimo rimanda al suo libro “Luna? Sì, ci siamo stati”. Proviamo ad analizzare entrambi.
LA TECNOLOGIA TROPPO ACERBA
Alla fine degli anni sessanta, smartphone e personal computer erano molto di là da venire. I computer avevano cominciato ad affacciarsi, ma erano macchinari ingombranti con una capacità di calcolo irrisoria in confronto a quella di oggi.
Anche concedendo che l’agenzia spaziale americana possedesse prototipi più avanzati rispetto ai modelli disponibili in commercio, rimane il fatto, indubbio, che gli astronauti delle missioni Apollo abbiano intrapreso il viaggio con una strumentazione informatica rudimentale.
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A bordo del c.d. “modulo di comando” , la parte di navicella che rimase in orbita della Luna, c’erano quattro computer al cui confronto il pc su cui sto digitando adesso questo post è largamente avveniristico. Lo stesso vale per l’unico computer in dotazione al L.E.M., il velivolo soprannominato “Eagle”, Aquila, che atterrò sulla Luna.
I “lunacomplottisti” ne traggono la conclusione che con una attrezzatura così povera sarebbe stato impossibile portare a termine l’impresa. Impossibile, o un miracolo.
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In previsione di possibili emergenze, tutti gli astronauti dell’Apollo 11, nonché delle missioni successive, erano addestrati per effettuare a mano i calcoli delle traiettorie di volo, oltre ad essere piloti eccezionalmente abili nel volo a vista , in particolare “the first man”, Armstrong, un vero numero uno in quel campo.
Come si è venuto a sapere poi, Armstrong lo dimostrò anche nel momento delicatissimo della discesa sull'”Eagle” verso il suolo lunare.
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Quando “Eagle”era a poche centinaia di metri dal contatto, si verificarono una serie di pericolosi imprevisti nel sistema computerizzato di volo. I calcoli sulla velocità di discesa del velivolo si rivelarono non accurati, cosicché il punto di atterraggio rischiava di essere lontano da quello previsto.
Come se non bastasse, il computer di bordo incominciò a lanciare allarmi di malfunzionamento. Infine, i due astronauti dell'”Eagle si accorsero che stavano planando su una zona non pianeggiante, col rischio di andare a sbattere contro le ondulazioni del terreno.
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Ebbene, Armstrong passò in modalità di volo manuale, guidando con freddezza il velivolo in un punto sicuro di atterraggio.
Le registrazioni di quel momento drammatico mostrano un aspetto fondamentale: le comunicazioni con la Terra funzionavano benissimo, cosicché gli astronauti potevano costantemente valersi del supporto della base di Huston , che disponeva di elaboratori di maggiore potenza.
Bisogna tuttavia riconoscere che parlare di “miracolo ” a proposito della missione non è una iperbole. Se un uomo, Armstrong, non avesse mostrato uno spirito di iniziativa e una perizia non comuni, ora saremmo qui a commemorare il “disastro dell’Apollo 11” e non so se ci sarebbero state altre missioni.
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Ricordo che, qualche tempo dopo, si è venuti a sapere che il Presidente Nixon aveva già pronto un discorso alla nazione, di cui si conosce il drammatico testo, nel caso che le cose fossero andate storte.
Tornando all’ineguatezza informatica delle Missioni Apollo, i “lunaconquistatori” ribattono, secondo me in modo persuasivo, che il problema non è se i computer delle navicelle spaziali fossero in assoluto più o o meno rudimentali, ma se erano adeguati alle funzioni richieste.
Adesso disponiamo di computer molto più performanti, ma li usiamo per un gran numero di attività molto sofisticate, si pensi solamente alla capacità di calcolo che assorbono i giochi di simulazione tridimensionali.
Nel 1968 si chiedeva ai computer a bordo del “Modulo di comando” e dell'”Eagle” di calcolare le traiettorie di volo, niente altro.
Non è irragionevole che potessero farcela.
L’INSUPERABILITA’ DELLE “FASCE DI VAN ALLEN”
Alla fine degli anni 50 il fisico olandese James Van Allen, a capo delle Missioni “Explorer” ( lancio in orbita di satelliti artificiali a scopo di studio) scoprì, o meglio trovò conferma che, all’interno della magnetosfera terrestre si trovano due grandi anelli ad alta intensità radioattiva, uno a tra i 1000 e i 6000 metri di altezza dal suolo, e uno tra 20000 e i 40000.
A quel che ho capito, da appassionato non esperto di fisica, sono frutto dell’incontro tra le radiazioni solari e l’atmosfera terrestre.
E’ importante sottolineare che non si tratta di barriere compatte, a mo’ di cupola ma, appunto, di “fasce”, il cui spessore varia in funzione dell’attività solare e a seconda delle zone.
“Lunacomplottisti” e “lunaconquistatori” si confrontano da sempre sugli effetti che l’attraversamento delle fasce ( impresa necessaria, ovviamente, a tutte le Missioni Apollo) avrebbe sulla delicata strumentazione dei veicoli spaziali e, soprattutto, sul corpo umano.
Ivo Mej ricorre alla suggestiva immagine di una “friggitura”.
I progettisti delle Missioni Apollo avevano ben presente che attraversare le “fasce di Van Allen” fosse un rischio, tanto che fornirono la struttura esterna del Modulo Apollo e le tute degli astronauti di una consistente schermatura.
Inoltre, regolarono la traiettoria dei veicoli spaziali, sia all’andata che al ritorno, dirigendola nei punti più stretti delle fasce, in modo da ridurre il tempo di esposizione radioattiva.
Secondo la versione ufficiale della Nasa, gli strumenti non subirono alcun danno e per quanto riguarda gli astronauti gli esami medici svolti al ritorno sulla terra hanno indicato una percentuale di assorbimento delle radiazioni ( si misura in “sievert”) trascurabile.
Naturalmente, secondo l’ipotesi “complottista” tutto ciò sarebbe falso.
Sull’intensità radiaottiva delle fasce di Van Allen e sui reali pericoli del loro attraversamento, non c’è unanimità.
V’è da dire che, se non la prima almeno la seconda fascia è stata sicuramente toccata, senza disastri, da satelliti, telescopi orbitanti e stazioni orbitali permanenti abitate dall’uomo.
In questo fresco articolo sui dati raccolti dalle “Sonde Nasa Van Allen”: progettate e lanciate in orbita proprio per studiare le “fasce”, si da’ conto di rilevazioni più tranquillizzanti su natura e livello della loro radioattività.
C’è da chiedersi se l’assunto “complottista”: le missioni Apollo non sono arrivate sulla la Luna perché le “fasce di Van Allen”sono insuperabili non vada rovesciato: le “fasce di Van Allen” sono superabili perché le Missioni Apollo sono arrivate sulla Luna.
Rino Casazza
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