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Quarto Grado e la strage di Erba: le verità non raccontate in tv

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La serie di puntate colpevoliste di Quarto Grado sulla strage di Erba, tra fake news, scivoloni e notizie date a metà

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Dopo aver dedicato diverse puntate ai dubbi sulla strage di Erba, Quarto Grado ha preso da tempo una strada opposta e decisamente colpevolista. E sono così partite alcune puntate durissime contro la coppia.

Gianluigi Nuzzi, lo aveva fatto capire già sui social, dopo le accuse di Rosa Bazzi al criminologo Massimo Picozzi (che fu consulente della prima difesa dei coniugi), quando aveva scritto: «Amiche e amici, l’attacco dell’assassina Rosa Bazzi a Massimo Picozzi va preso come il disperato tentativo di una ergastolana pluri-omicida di far breccia nel muro del carcere, puntando alla revisione del processo. Signora Rosa si rassegni questo non accadrà, inutile attaccare persone perbene».

Su Instagram c’era andato poi pesante dicendo che Rosa «rideva durante la proiezione del video del piccolo in aula».

 

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Frasi dure, durissime. Solo che non esiste alcun video del piccolo Youssef e nessuno lo ha mai perciò mandato in onda in aula. Cos’avesse visto dunque Nuzzi, non si sa.

Ma questo avveniva, appunto, sui social. Perché quando arriva il momento di Quarto Grado, il conduttore tiene a specificare che nella sua trasmissione si fa informazione, non suggestioni, tantomeno si immaginano complotti: il chiaro riferimento è a Le Iene, che ha condotto in questa stagione un’inchiesta durata mesi e partita dalle conclusioni della Cassazione, la quale decretò due ergastoli sostenendo comunque che sul caso si addensavano «numerosi dubbi» e «aporie», ovvero domande senza risposta. Ma questo per la Cassazione.

 

LE CONFESSIONI E LE FOTO PER QUARTO GRADO MAI MOSTRATE

Per Quarto Grado si tratta invece di complottismo. Così, nel corso delle puntate tese a smontare le teorie innocentiste, eccoli affrontare le confessioni della coppia: le definiscono assai dettagliate, come fece la Corte d’Assise di primo grado.

Dimenticano di dire che già la Corte d’Assise d’Appello di Milano le ritenne piene di «versioni non credibili» e di «numerose inesattezze». Solo che in appello questo particolare fu attribuito all’intenzione della coppia di lasciarsi aperta la porta ad una ritrattazione che sarebbe avvenuta dieci mesi più tardi. Una macchinazione di coppia incredibile anche solo da immaginare.

Invece lì, in tv, continuano a domandarsi come gli imputati potessero conoscere i particolari della mattanza.

La risposta, verrebbe da dire, è una sola: guardando le foto. D’altra parte la corrente in quell’appartamento era stata staccata alle 17,40 e alle ore 20 dell’11 dicembre 2006 era buio pesto. Olindo dirà di non aver nemmeno acceso la luce delle scale. Rosa insisterà alla fine della confessione a giurare, contro ogni evidenza tecnica, che la luce invece c’era. E allora, al buio pesto, figuriamoci come avrebbero potuto indovinare posizioni dei corpi, colori, abiti delle vittime. Individuare mobili o i libri da bruciare. Anche perché Raffaella Castagna, Paola Galli e Youssef  Marzouk furono uccisi molto a sinistra della porta d’ingresso, dove nemmeno sarebbe potuta filtrare la luce delle scale che Olindo sosteneva essere spenta.

Quarto Grado, dove si fa informazione, questa cosa delle foto suona invece come nuovissima e per due puntate due negano nientemeno che a Olindo e Rosa fossero state mostrate le immagini dell’eccidio. Eppure è tutto in atti, quegli atti che dicono di aver consultato a fondo. C’è negli atti, c’è sul sito di Oggi  dal 2011 e lo hanno mostrato anche Le Iene: si tratta di un verbale del 6 giugno 2007 in cui a sostenerlo è un pm, e della requisitoria del pm Massimo Astori. È lui stesso a ammetterlo. Quando alla terza puntata ormai non possono più far finta di nulla, a Quarto Grado, giusto per non dire di essersi sbagliati, riescono addirittura a metterlo in “forse”:

 

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E si chiedono che foto avranno mai mostrato i pm agli imputati, certamente immagini generiche, ipotizzano. Eppure anche questo è noto da quando trovai la frase mai trascritta di un interrogatorio di Olindo in cui un magistrato diceva all’indagato, dopo che questi aveva descritto posizione e abiti di una vittima, «veniamo alle altre fot…eeeh questione», tagliata a verbale con «veniamo alle questione». Pure questo l’ho scritto sul settimanale, è online da otto anni sul sito di Oggi ed è stato mostrato a Le Iene. Ma si vede che dove si fa informazione si preferisce non leggere i giornali e non guardare le trasmissioni di intrattenimento dove si fanno suggestioni. Così, tre puntate tre per mettere in discussione un fatto che è pacificamente in atti e si passa all’analisi della macchia di dna sulla Seat di Olindo e Rosa.

 

LA MACCHIA DI SANGUE PURA

E stavolta sono precisi, perché, assicurano, hanno fatto approfondimenti: la macchia rinvenuta sul battitacco della Seat e che nessuno ha mai visto a parte chi la repertò (non c’è una foto buia che documenti la luminescenza del luminol, ma una foto normale con sopra un cerchietto), ovvero il brigadiere Carlo Fadda, è «pura». Lo scrisse nella sua perizia il professor Previderè, consulente dell’accusa. Il generale Luciano Garofano, all’epoca comandante dei Ris di Parma, ma che non indagó su quella macchia, precisa in trasmissione che «non si è diluita». E questo è verissimo. E dunque tutto inchioda Olindo e Rosa, concludono.

E questo è meno vero.

Perché nella trasmissione ci si dimentica, non si sa perché, di cos’abbia testimoniato in aula, in proposito, il brigadiere Fadda l’11 febbraio 2008. Disse infatti Fadda di aver cercato tracce sull’auto prima con la lampada Crimescope, ma non venne fuori nulla. E perché?: «Sulla Crimescope, se una macchia è visibile, se non è stata lavata si riesce a trovarla anche con la lampada, mentre se è stata lavata oppure se è stata pulita non riesce a rilevare niente».

Dunque per Fadda quella macchia era l’esatto opposto di quella descritta dal professor Previderè: lavata. Ma o è originale e pura o è lavata e diluita. Non c’è alcuna possibilità di conciliazione tra le due versioni: e come faccia ad essere la stessa macchia rimane un mistero. È almeno argomento di dubbio una versione opposta sullo stessa prova che porta all’ergastolo? No, perchè tutto questo, per Quarto Grado, deve essere una sfumatura. Così come devono ritenere evidentemente una sfumatura le clamorose dichiarazioni fatte dal brigadiere a Le Iene undici anni dopo la sua testimonianza in aula: «La foto al buio è stata scattata, ma non è uscita».

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IL VERBALE DEI CARABINIERI, LA MACCHIA POTREBBE ESSERE FRUTTO DI CONTAMINAZIONE? PER QUARTO GRADO NO, PER IL CARABINIERE CHE LA RILEVÒ SÌ

Così, a proposito della macchia di sangue che poteva essere giunta sull’auto per contaminazione, perché trasportata dai carabinieri saliti sul luogo della strage, come ritenuto possibile peraltro dallo stesso Fadda ancora a Le Iene tanti anni più tardi, ecco una nuova incredibile scoperta della redazione.

In sostanza c’erano quattro carabinieri che avevano firmato il verbale di perquisizione sull’auto di Olindo: ed erano gli stessi che poco prima erano entrati nel palazzo della strage. Ne Il grande abbaglio- controinchiesta sulla strage di Erbaanno 2008, avevamo parlato in particolare di uno di loro:  il carabiniere Vito Rochira. In aula a Como successe però una cosa sorprendente: il comandante dei carabinieri di Erba Luciano Gallorini, dichiarò che nessuno dei quattro carabinieri che aveva firmato il verbale di perquisizione l’aveva materialmente svolta, ma l’aveva fatta un quinto carabiniere, l’appuntato Moschella, che però non risultava sul verbale. E che era anche l’unico a non essere entrato nella scena del crimine. Perchè a Erba si lavorava come «un gruppo di lavoro» dove c’era chi firmava e chi materialmente compiva gli atti, se no «il carabiniere si offende».

Quarto Grado ci aggiunge ora del suo.

Già il 26 aprile, il generale Garofano non esprimeva più i propri dubbi sul verbale manifestati in proposito a Le Iene. Diceva anzi che Moschella aveva chiarito tutto in aula. Andava oltre, sostenendo addirittura che sia le tracce di sangue di Mario Frigerio che quelle di Valeria Cherubini (da contatto e da proiezione), che il Ris aveva analizzato, descrivevano perfettamente i racconti che erano emersi dalle indagini.

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Chissà però perché i Ris di Garofano, che pure erano consulenti dell’accusa, vennero chiamati a testimoniare dalla difesa, mica dal pm. E lo stesso generale, in aula, in merito al sangue, raccontò dettagli assai precisi che nel programma non ha ripetuto.

Ma poi, appunto, col passare delle puntate, la trasmissione ha voluto approfondire, in proposito, la questione dei carabinieri del verbale saliti sul luogo della strage e saliti sull’auto e hanno preparato uno schemino scritto a penna, in cui si evidenziava chi dei carabinieri entrò davvero nel palazzo di casa Castagna: un lavoro certosino dal quale risultava nientemeno che Rochira là sopra non ci era salito.

 

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Caso chiuso, dunque. Almeno lì. Perché, ignoro che carte abbiano consultato, ma la realtà è un po’ diversa: questa è la pagina 2 del rapporto del 16 dicembre 2006 del comandante Gallorini. E chi salì con il comandante fino al piano di sopra del palazzo della strage? Vito Rochira.

 

 

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LA LAVATRICE E LA LANCIA K

Nel corso delle puntate si è andati avanti a sviscerare argomenti con passione. Dopo aver insinuato ancora i sospetti sulla lavatrice di Rosa in funzione (che non ci fosse sangue nei panni contenuti fu tuttavia escluso dal rapporto di Gallorini cinque giorni dopo la strage) e dopo aver insistito sul fatto che chi sgozzò Youssef era mancino come Rosa (dimenticando però di dire che nella relazione autoptica preliminare l’assassino era destrimane e che solo successivamente si era mancinizzato), si sono domandati, nella trasmissione, come facessero Olindo e Rosa a sapere che quella sera Paola Galli arrivò nella corte con la Lancia K del marito e non con la sua Panda. Lo dicono perché se lo chiesero anche i giudici della Corte d’Assise di Como, mettendolo in sentenza come motivo di sospetto. Ma questo perché nè i giudici della Corte d’Assise di Como, nè i giornalisti di Quarto Grado, che sostengono di leggere gli atti, si sono presi mai la briga di ascoltare, prima di informare l’opinione pubblica, le intercettazioni della coppia: altrimenti avrebbero scoperto che proprio quel fatto era argomento di discussione dei coniugi coi vicini. Nella corte di via Diaz, infatti, lo sapevano tutti. Non qualcuno: tutti.

 

L’AUDIO DI MARIO FRIGERIO

Tuttavia, è nell’ultima puntata, andata in onda venerdì, che la trasmissione si è superata, dopo aver annunciato un audio del testimone Mario Frigerio, un «audio importantissimo che davvero scioglierà ogni dubbio» ha detto Nuzzi.

Un’affermazione netta, sicura, che non ammetteva repliche. Tutti quelli che hanno seguito il caso sono saltati sulla sedia.

Poi però si è scoperto che l’audio importantissimo è quello del 15 dicembre 2006 in cui Frigerio, mentre descriveva come aggressore una persona olivastra, che non era del posto mai vista prima, avrebbe detto (e qui sarebbe lo scoop del programma di rete 4) contemporaneamente «è stato Olindo». In realtà si tratta di un audio arcinoto scovato dalla stessa Corte d’Assise che concluse il processo di Como, rimbalzato ovunque e su ogni tv per due anni, ma che stranamente non era mai stato udito da periti di accusa, difesa e Corte d’Assie, pm Pizzotti, ufficiale di polizia giudiziaria, medico, avvocato e figlio di Frigerio presenti al colloquio e, cosa surreale, nemmeno dallo stesso Mario Frigerio.

In tv ne parlano per un bel pezzo facendo finta di nulla. Poi una cronista ricorda che la difesa contestò l’audio. Dice che siccome il colloquio di Frigerio con il pm Simone Pizzotti fu registrato su microcassetta «si può sostenere secondo la difesa di Olindo e Rosa che le pile fossero un po’ scariche, che quindi quell’audio non sia da prendere in piena considerazione, allora non arriva poi in appello e quindi mettendolo in discussione l’hanno stralciato».

Le cose sono in realtà leggermente diverse, per usare un pallido eufemismo. E spiegate esaurientemente nella sentenza d’appello di Milano, dove c’è scritto: «Quello che la Corte osserva è che effettivamente i giudici hanno sentito un “file” che era stato digitalizzato, e amplificato dalla Corte con il programma Cool Edit 2000 al fine di renderne il contenuto più intelleggibile, peraltro apportando al “file” originario una specie di modificazione…. ovviamente senza nessuna intenzione di falsificare scientemente il risultato uditivo».

La verità è dunque che il processo fu chiuso da un audio modificato che aveva cambiato la frase «stavano uscendo» o «è stato uscendo» con «è stato Olindo». Una differenza abissale che non servì comunque a riaprire il dibattimento in appello. E ai giornalisti di Quarto Grado che si vantano di fare informazione al contrario di altri, sarebbe potuta venire in mente una domanda: ma il 15 dicembre che senso aveva che Frigerio dicesse «è stato Olindo», se a verbale faceva mettere che ricordava come suo aggressore un uomo dalla carnagione olivastra, mai visto prima, facendo aggiungere dal suo legale, il giorno dopo, che era più alto di lui di 6-10 centimetri e che cominciava a ricordarsi il volto? Il dubbio non ha sfiorato i loro preparatissimi segugi.

 

LE PAROLE DI ANDREA FRIGERIO

Però non basta. A rinforzo della bontà del ricordo di Mario Frigerio, mostrano la testimonianza in aula del figlio Andrea, presente al colloquio del padre con il comandante Gallorini del 20 dicembre 2006, a proposito del quale Andrea disse che il papà, al nome di Olindo «aveva l’espressione come se dicesse: ci siete arrivati». Fu il colloquio decretato come decisivo dal testimone, dal figlio, dai giudici: la data del 20 dicembre, quella in cui Gallorini fece 9 volte il nome di Olindo al testimone e quello in cui Mario Frigerio si liberò «di un peso», ammettendo da allora e per sempre, che l’aggressore era Olindo.

Il che andrebbe benissimo, se non fosse che il 21 dicembre 2006, esattamente 24 ore dopo quella conversazione di Mario Frigerio con Gallorini, lo stesso Andrea si era recato all’ufficio di polizia di Stato dell’ospedale Sant’Anna a rilasciare sommarie informazioni. Parlò quindi di Olindo? No. Disse che il padre aveva capito e si era liberato di un peso? No. Riferì almeno dei dubbi emersi con Gallorini? Nemmeno. Raccontò per contro che suo papà non aveva mai modificato il proprio racconto: che ad aggredirlo era stato un uomo olivastro e che sarebbe stato in grado di riconoscerlo tra le foto segnaletiche o da un identikit. Il nome di Olindo o di un generico vicino di casa sul verbale, non c’è proprio. E questo è il verbale:

 

 

Ma quest’enorme discrasia la trasmissione mica la racconta. Magari non lo sanno. Ci sono anche intercettazioni del 22 e del 24 dicembre, mai entrate a processo, che sembrerebbero raccontare tutt’altra storia. Ma lì poco importa.

Si limitano a dire che per il «revisionismo ci vuole onestà intellettuale».

E certo. Onestà intellettuale. Parlano del cerotto di Rosa, che fu sequestrato la sera stessa della strage. E ricordano che fu Olindo a ferire Rosa, come ammise lui stesso.

Vorrei aggiungere che a dirla tutta Rosa sostenne invece che si trattava dell’esito della lotta con la Cherubini, poi cambiò idea e parlò di un morso di Raffaella, a seconda delle versioni deliranti che diede. Soprattutto: in ogni caso, sul cerotto non c’era alcun dna delle vittime.

 

IL COLTELLINO

Quindi, ecco arrivare una nuova prova decisiva della colpevolezza. Mostrano un ulteriore passaggio della «dettagliata» confessione di Olindo, in cui lo spazzino raccontava di aver colpito con il coltellino la testa di Valeria Cherubini. Come faceva a saperlo che era stata colpita proprio con il coltello e proprio alla testa, continuano a chiedersi?

Chissà. Forse perché nell’istanza di fermo, letta e consegnata ad Olindo, c’era scritto che gli assassini avevano usato coltello e corpo contundente.

Peccato che dimentichino di ricordare che Olindo confessò di aver dato a Valeria Cherubini cinque o sei colpi: ma la vittima fu l’unica attinta da moltissimi colpi. Ben 43. E le fu fracassato il cranio da 8 di quei colpi, impresa improbabile con un «coltellino».

Purtroppo Quarto Grado non è Chi l’ha visto?. Se però, come ho documentato, la trasmissione di Federica Sciarelli subì «azioni» non appena, nel 2011, iniziò a ricostruire in maniera sensata la strage (senza basarsi su occhi, emozioni e opinioni), Le Iene sono almeno andate fino in fondo: e anche sui social del programma di Nuzzi, Olindo e Rosa non sono più considerati da tutti come due mostri. Tanti, tantissimi, si sono ribellati a queste versioni a senso unico. Tanti non credono più agli occhi di Olindo e a fesserie del genere, vogliono capire i fatti. Non le opinioni. E, ad oggi, cominciare a dubitare di questa storia è già qualcosa.

Edoardo Montolli

IL GRANDE ABBAGLIO – CONTROINCHIESTA SULLA STRAGE DI ERBA, versione aggiornata – QUI

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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