Liliana Segre è una donna di 88 anni, fiera. Una delle ultime testimoni rimaste di uno dei periodi storici più disgustosi e umanamente terribili che memoria e libri possano raccontare.
Si presenta alle 10 e 30 di un sabato primaverile presso la scuola Montessori di Via Bartolini, a Milano, per raccontare ai giovani studenti e ai loro genitori cosa accadde durante la sua prigionia nel campo di sterminio di Auschwitz a metà degli anni quaranta.
Lo fa con la solita composta eleganza e una precisione quasi didattica.
La direttrice dell’Istituto, Rosa Di Pierro la presenta con poche parole:
“Abbiamo fatto leggere ai ragazzi il libro della Signora Segre ma, ritengo, sentirlo raccontare direttamente da lei rappresenta per noi un onore ed un coinvolgimento persino maggiore.”
La reduce, nominata nel 2018 senatrice a vita dal Presidente Mattarella, si accomoda davanti al microfono e, con voce decisa abituata al ricordo, ci prende per mano trascinandoci del baratro della follia umana e delle sofferenze patite da anime incolpevoli.
“Da nonna ho grande rispetto e pudore per i bambini. Non è facile raccontare la mia storia nonostante io stessa fossi solo una bambina quando accaddero i fatti che cambiarono per sempre la vita della mia famiglia. Da testimone ho sempre avuto difficoltà a trovare le parole giuste per riuscire a far capire, specialmente ai più giovani, quale fosse il contesto e le emozioni vissute in quel periodo. Per una legge infamante vennero classificate le persone. Venne dimenticata l’uguaglianza e nacquero individui di serie A, di serie B, fino alla Zeta. A otto anni, vittima di quelle stesse leggi, venni espulsa dalla scuola e ne rimasi traumatizzata. Feci a mio padre la più naturale delle domande: perché?”
La sala, un centinaio di anime tra adulti e bambini, prova per un istante ad immedesimarsi nella piccola Liliana e in suo padre, un vedovo e combattivo borghese che non avrebbe mai accettato di rassegnarsi agli eventi.
“Non seppe rispondermi” prosegue la bambina con sembianze da nonna “Come avrebbe potuto spiegarmi, piccola com’ero, quanto una discriminante religiosa potesse di escludermi da tutto? Persino i libri scolastici vennero sostituiti con quelli di autori esclusivamente ariani. Venni abbandonata da tutti. Gli amici che credevo tali, mi esclusero ed evitarono di avere più a che fare con me. Per strada mi additavano, a distanza, sussurrando -Ebrea-. Succede anche oggi, troppo spesso. Quando si è malati, deboli, non è così improbabile ritrovarsi soli.
Diventammo “nemici della patria”. La polizia veniva in casa nostra per rovistare tra i nostri vestiti e mia nonna, nella sua innocente dolcezza, offriva loro dolci mentre veniva scansata in malo modo. Smisi di giocare. I pochi, pochissimi, amici rimasti, ci rimasero vicini. Quando nel ’42 bombardarono Milano fummo sfollati presso un paese della Brianza. Io, non potendo andare a scuola, attirai la curiosità delle altre bambine limitandomi a rispondere che dovevo rimanere a casa a curare mia nonno malato di Parkinson ma lucidissimo. In effetti era, in fondo, la verità.”
Una pausa per un sorso d’acqua e per ricordare quanto fosse straordinario quel nonno che, con caparbietà, si era preso sulle spalle la famiglia dando loro un benessere destinato ad essere spazzato via a breve.
“Nell’estate del ’43 si raggiunse l’apice dell’antisemitismo. Un caro amico di famiglia, il signor Pozzi, giunse a casa nostra proponendo a mio padre di prendermi con sé, nella sua casa. Provai ad oppormi ma senza riuscirci. Tanta era la loro bontà da non rendersi forse davvero conto che se le forze dell’ordine avessero scoperto un ebrea nascosta nella loro casa, probabilmente, avrebbero potuto essere persino fucilati. Dopo un certo periodo raggiunsi un’altra famiglia in Valsassina fino a quando la questura di Como ci rilasciò un permesso a cui, ignari, credemmo. Arrivammo in Svizzera ma giunti lì, il primo ufficiale che incontrammo, ci cacciò sostenendo che la situazione italiana non fosse grave quanto volevamo farla apparire.
Tornati in Italia fummo arrestati dai finanzieri in camicia nera. Finimmo in carcere. Prima a Varese, poi a Como, infine a San Vittore. Qui la struttura era divisa per raggi, ognuno per un debito reato. Il nostro raggio era quello degli ebrei.
Erano giorni senza tempo. Io, in cella con mio padre, faticavo a guardare in faccia gli altri reclusi. La paura della deportazione era tangibile.
Un giorno arrivò un tedesco e lesse una lista di 600 nomi.
Ci portarono in Stazione Centrale e spintonati dentro un cosiddetto “vagone bestiame”.
Il viaggio durò una settimana. La cosa più terribile, durante quei giorni, fu il secchio per terra. Era un affronto alla dignità umana. Una vergogna mai provata prima. Quel secchio che si riempiva e debordava, confondendo l’odore al suo interno con quello del sudore e della paura.
Attraversammo l’Italia, l’Austria, la Germania, la Foresta Nera tra l’indifferenza generale.
All’interno del vagone, alla fine, si fece silenzio. Come quando qualcuno sta per morire e si chiude in sé stesso. Era quella la sensazione.”
Qualche secondo per riprendere fiato prima di tuffarsi nell’ultimo capitolo della storia, il più duro da digerire e da rivivere.
“Arrivati ad Auschwitz fummo accolti dai fischi e dalle grida delle guardie. Ci registrarono dividendoci tra maschi e femmine. Ci dissero che, quella sera stessa, ci saremmo riuniti. Io lasciai la mano di mio padre per l’ultima volta. Non lo rividi mai più.
Fui scelta assieme ad altre trenta donne, le più in salute, per andare a lavorare presso una fabbrica di munizioni. Le poche parole che riuscivo a scambiare con le altre prigioniere mi facevano sentire viva. Ero piegata, distrutta dalla fame e dalla fatica, ma non intendevo mollare. Come la forza di gravità attira gli oggetti alla terra, io volevo andare verso la vita. Si dormiva vestite per paura di essere derubati anche solo delle scarpe. Chi non ha più nulla può essere disperato. Tenevo le dita nelle orecchie per non sentire le urla, i pianti, i bambini che cercavano le madri. Imparai a memoria il numero che mi avevano tatuato sull’avambraccio, 75190, mi tagliarono i capelli a zero e l’unico modo per capire il proprio aspetto era specchiarsi in un’altra prigioniera.
Dopo circa un anno cominciammo a sentire arrivare sopra le nostre teste gli aerei russi. I tedeschi decisero di far saltare in aria le camere a gas, le segreterie i crematori.
Ci costrinsero a intraprendere quella che fu definita la Marcia della Morte.
Una gamba davanti all’altra, stando attente a non cadere, pena la fucilazione. Vedevo la gente affacciata alle finestre che ci guardava senza dire nulla, senza intervenire.”
La sala è in silenzio, partecipe in un abbraccio collettivo che sgretola gli anni e s’infrange sulle rughe di Liliana, ormai stanca.
“Russi e americani arrivarono al campo di Malchow il primo maggio del ’45. Voglio ricordare le parole di Primo Levi, vero maestro, nel descrivere l’espressione dei soldati giunti dinanzi a quell’inferno: Avevano negli occhi lo stupore per il male altrui.
I carcerieri tedeschi smisero le divise mettendosi in borghese e allontanando i cani, abituati ad attaccare.
Ricordo che quando ci liberarono e si aprirono i cancelli, un ufficiale tra i più cattivi ora in abiti civili, mi camminava accanto. Fece cadere la pistola ed io per un istante pensai di prenderla e ucciderlo per vendicarmi.
Ma non lo feci. Sarei diventata come lui.”
Una bambina raggiunge Liliana Segre e le domanda: “pensa che quei fatti possano ripetersi ancora?”
La nonna sorride, l’abbraccia e quasi in un respiro risponde.
“No, perché ci siete voi.”
La sala si alza in piedi e applaude. Ed ogni battito di mani è un urlo di rabbia, di consapevolezza.
E’ un inno all’uguaglianza e al rispetto nei confronti di chi viene umiliato ed escluso nell’indifferenza generale.
E’ la voce della memoria.
Alex Rebatto