Entrai nella stanza al sesto piano dell’hotel DeVille poco dopo mezzanotte. Lanciai la giacca sul letto perfettamente allineato e vi sedetti accanto. Presi il cellulare, l’ultimo IPhone, e rovistai nella rubrica.
L’avvocato Belfiore rispose al quinto squillo. Non sembrava assonnato.
Era una delle classiche serate di poker che si protraevano fino all’alba tra un drink e un sigaro di pregio.
“A cosa devo il disturbo?” esordi’.
Mi accesi una sigaretta lanciando un’occhiata fugace al cartello accanto alla porta con su scritto No Smoking.
“Sono a Torino.”
Il tono della sua voce si attenuò mentre si allontanava dal tavolo.
“Di già? Che stanza hai preso?”
“La 612, come d’accordo.”
“Magnifico. Ti ha visto qualcuno?”
“Seicento persone, almeno. E ho pure dovuto lasciare una considerevole mancia al tizio alla reception perché si dimenticasse alla svelta la mia faccia” soffiai del fumo verso il soffitto “e mi aspetto venga rimborsata fino all’ultima moneta di rame”, aggiunsi.
“Naturalmente, naturalmente” il vecchio si stava ringalluzzendo “Hai già dato un’occhiata intorno?”
“Non ancora. Sono entrato un attimo fa. Ha una vaga idea di dove possa essere quella roba?”
“Assolutamente nessuna. La ragazza al telefono non ha dato troppe spiegazioni. Stanza 612, una lettera, un innocente ormai suicidatosi. Questo è tutto quello che so”.
O che sei disposto a dirmi, vecchio bastardo, pensai.
“Rivolta quella stanza da cima a fondo. Trovami quella dannata lettera e portala entro domani sera al mio studio di Bologna. Se si tratta di quello che penso sarò molto più che generoso”.
Fece per riattaccare, poi aggiunse un’ultima perentoria postilla.
“E che quella busta rimanga ben sigillata, sia inteso”.
Restai con il cellulare sospeso tra l’orecchio e la spalla per qualche secondo, poi decisi di mettermi al lavoro.
Sollevai il materasso tastandone ogni centimetro e passai all’armadio. Nessun doppio fondo. Quattro grucce di ferro. Uno specchio all’interno dell’anta e un sottile alone di polvere.
Pulizie discutibili al DeVille.
Andai in bagno, smontai il recipiente dell’acqua dietro al water e accarezzai porcellana appiccicaticcia per venti minuti abbondanti.
Trascorsi le seguenti due ore a tastare e perlustrare ogni schifoso millimetro della stanza 612. Quando raggiunsi il quinto sbadiglio mi rassegnai a rimandare il controllo più accurato al termine di una meritata dormita.
Aprii il frigo bar per la terza volta e stappai l’ultima delle bottiglie di birra.
Un suono di monetine cadute attirò la mia attenzione sul cellulare. Sms alle due e mezza del mattino?
Lessi: avvocato Belfiore. Un curriculum discutibile. Ha cercato di tirare fuori Lucio Canestri e suo fratello Adelmo dal carcere di Piombino in almeno tre occasioni. Sempre senza riuscirci. Mi sembra strano che abbia contattato proprio te per questa faccenda.
La mia “segretaria”, al lavoro a quell’ora. Che donna unica.
Pensi ci sia sotto qualcosa? , scrissi.
Bastarono un paio di secondi perché mi arrivasse la lapidaria risposta.
Stai all’erta.
Mi avvicinai alla finestra e osservai la piazza sei piani sotto illuminata dalle ultime luci natalizie, pronte ormai per essere rimosse e stipate in chissà quale antro segreto in attesa del Natale successivo.
Lucio e Adelmo Canestri, ricordai.
Due fratelli dalla stessa faccia e della stessa feccia. Il primo faceva da palo, il secondo entrava negli uffici postali pistola alla mano e incassava. L’ultima rapina, però, era andata male. Una delle guardie si era messa in testa di fare l’eroe e si era beccata una pallottola nella pancia. Guarda caso, maledetta fortuna, mi trovai a passare proprio lì mentre si davano alla fuga. Riconobbi gli occhi di Adelmo (negli archivi della polizia, in fondo, aveva un pedigree notevole) e al processo testimoniai.
“Aveva una maschera che gli copriva gran parte del volto, ma quegli occhi…”
Riconoscimento all’americana e centro al primo colpo.
“Bravo, Terry. Hai vinto una bambolina “.
Ora quella stanza d’albergo cominciava a puzzare in maniera considerevole.
Un testimone, un avvocato dalla dubbia reputazione e due figli di buona donna in attesa di processo.
Quello messo peggio, a conti fatti, ero proprio io.
Andai a chiudere la porta a chiave con un’altra mandata e feci una telefonata.
“Avvocato?”
Sembro’ quasi sorpreso.
“Savonarola, è notte fonda.”
“Volevo solo informarla che ho trovato ciò che cercavo”.
Lunghi secondi di pausa.
“Ah, molto bene” ora il suo tono sembrava DECISAMENTE sorpreso “Ti aspetto domattina nel mio ufficio, come d’accordo”.
Riattacco’ velocemente.
Ora avevo la conferma. Stavano cercando di mettermelo nel culo.
E, cosa assai peggiore, anche il vecchio aveva capito il mio gioco.
Afferrai la giacca e puntai l’occhio sullo spioncino della porta. Via libera.
L’avvocato si era inevitabilmente affrettato a fare uno squillo a chi di dovere e il tempo stringeva. Dovevo levare le tende rapidamente.
Il corridoio fuori dalla 612 era deserto. A lunghi passi raggiunsi l’ascensore: occupato.
Spinsi il maniglione rosso alla sua destra e presi a scendere le scale a balzi.
Sei piani a tempo di record. Al bancone della reception trovai un nuovo tipo, baffetti bianchi e un sorriso amichevole.
“È salito qualcuno al sesto piano?” chiesi.
Si portò una mano alla tasca della giacca. All’interno doveva esserci qualche banconota.
“Non che io sappia, signore” rispose candidamente.
Rimpiansi di aver lasciato nel mio ufficio a Milano la calibro 22 da viaggio e uscii a passi spediti dall’albergo attraverso la porta girevole in vetro.
Un albergo di periferia di Torino, in piena notte di un giorno qualsiasi della settimana significava una sola cosa: deserto assoluto. Per di più stava cominciando a piovere.
Attraversata la strada mi nascosi dietro un raccoglitore giallo di abiti usati e puntai lo sguardo verso la finestra della mia ex stanza al sesto piano. Bastarono un paio di minuti perché qualcuno vi si affacciasse.
“Siete in ritardo, ragazzi” mormorai.
La mattina dopo mi presentai alla segretaria di Belfiore. Era un tipetto non male, con luuuunghe ciglia nere e coooorta gonna blu.
“L’avvocato è in riunione” disse lanciando una rapida occhiata alla porta chiusa alle sue spalle.
“Me ne farò una ragione” la superai e feci un trionfale ingresso.
L’imbecille se ne stava lì, seduto alla scrivania con la cornetta in mano e un sigaro tra le labbra.
“Cristo” mormorò, poi all’interlocutore “Ti richiamo”.
Mise giù la cornetta e mi offrì il sorriso più amichevole del mondo.
“Savonarola, qual buon vento” mi porse una mano sudaticcia che ignorai. In compenso mi sedetti sulla poltroncina di pelle che gli stava davanti e accavallai le gambe.
Lo fissai per qualche istante poi scossi il capo recitando una parte e mi accesi una sigaretta con il suo zippo d’oro massiccio lasciato in bella vista sulla scrivania. Ovviamente lo intascai senza troppe remore.
“Non è stata una cosa troppo gentile, avvocato” gli soffiai addosso “anzi, è stato un giochino di merda, se mi permette il francesismo. E ora?” tamburellai con la punta di una scarpa sul dorso della scrivania “come la mettiamo?”
Balbetto’ “Non so di cosa stai parlando…”
Lo interruppi sporgendomi verso di lui. I nostri nasi quasi si sfioravano. Campari alle nove del mattino. Molto male, avvocato.
“Quindicimila” dissi “e lei mantiene una reputazione decorosa”.
Si tirò indietro di scatto, punto sul vivo.
Poi ci penso’ per qualche secondo.
“E i miei clienti?” chiese.
Allungai la schiena sulla poltrona.
“Se ne faranno una ragione. O si faranno un altro avvocato, se ne avranno il tempo”.
“Il processo è giovedì”.
“Appunto” feci il gesto di scucire “Quattro giorni di vacanza e quindicimila pezzi da sperperare. Potrei provare a sopravvivere, in fondo”.
Tamburello’ con le dita sul tavolo mentre il sigaro perdeva vita dalle sue labbra, poi si affaccio’ all’interfono:
“Veronica, preparami una busta con quindicimila euro, per favore”.
Poi mi allungo’ un ghigno da lince.
“Saranno i quattro giorni più pericolosi della tua vita. Lo sai, vero? “
Mi alzai toccandomi la giacca. La mia pistola da viaggio pulsava come un cuore pronto ad esplodere.
“Saranno quattro giorni pericolosi per chiunque”.
Dieci minuti dopo arrivò il malloppo accompagnato da un gran bel paio di gambe.
Lo intascai, mi accesi l’ultima sigaretta con il mio nuovo zippo d’oro massiccio e tolsi il disturbo.
Destinazione Las Vegas.
Alex Rebatto