Alice si svegliò trent’anni dopo.
Le prime luci del mattino s’insinuarono attraverso la tapparella socchiusa di un monolocale di periferia. Un soppalco, un letto sospeso.
Mille amanti da dimenticare. Ognuno aveva scaldato quelle lenzuola, le aveva promesso la felicità.
Ognuno le aveva strappato un pezzo di cuore, fino a lasciargliene solo un brandello dolorante, martoriato di cicatrici.
La ragazza, ormai inconsapevole donna, apri’ gli occhi e li sbatte’ lentamente. Si riprese la sua vita in un ultimo rassegnato sbadiglio.
Si sfilò le mutandine colpevoli di averla accompagnata in un notturno sogno erotico e scese a piccoli passi, dirigendosi verso il bagno.
La doccia le incollo’ i lunghi capelli sulla fronte. Il profumo del bagnoschiuma alla vaniglia, la musica in sottofondo. Un brano indie.
Canticchio’ due strofe, poi si fascio’ in un accappatoio viola e si vestì di corsa.
Una gonna troppo lunga, una maglia troppo innocua per essere notata.
Le avevano fregato l’auto due settimane prima.
“Devo andarmene da questa città” ripeteva come un mantra.
S’incammino’ tra bazar e reduci della notte dalla faccia torva.
Poi salto’ sull’autobus affollato.
Quaranta minuti con le cuffie nelle orecchie per non sentire le confessioni degli altri, le inquietudini, le speranze. Quaranta minuti di sudore, sorrisi acerbi, giacche e cravatte, zaini.
Scese a due passi dal centro.
Una laurea in marketing.
Un master. Un’esperienza a Londra.
E quello schifo di città le offriva solo un ruolo da comparsa in un’azienda di cosmetici.
Raggiunse il suo ufficio dopo un paio di svogliati saluti e si chiuse la porta alle spalle.
La prima telefonata della giornata:
“Tesoro, sono ripartita adesso da Vancouver. Uomini insipidi ma abili a letto. Tu come stai?”
“Il solito. Lo sai della macchina?”
“Me l’ha detto Ivano. Cazzo, mi spiace un sacco. Ma tuo padre che dice?”
“Lo sai com’e’ fatto.”
“Assicurata?”
“Per fortuna. Ma non ne riprenderò un’altra.”
“E come farai ad andartene dalla tua odiata città?” una risatina sommessa.
“Non so. Penso di rubarne una e viaggiare fino a che non scoppieranno le gomme. Potrei farlo, sai?”
“Si, certo. Ti saluto, tesoro. Stanno chiamando il mio volo. Ci risentiamo quando arrivo.”
Alice riaggancio’, accese il computer e dimentico’ la sua vita.
Otto di sera.
La palestra era insolitamente affollata. Specchi, specchi dappertutto.
E riflessi dappertutto. Muscoli guizzanti in vista e glutei scolpiti.
Ognuno con la propria dose d’egocentrica follia.
Alice si accomodo’ sul sellino e pedalò per quarantacinque minuti.
Un album dei Negrita a sfondarle i timpani.
I pesi che si alzavano intorno a lei. Scambi di battute.
Nuove amicizie e amori che sbocciavano tra il sudore e le scarpe griffate.
Riprese l’autobus semivuoto e alle dieci, la porta del suo monolocale, tornò ad aprirsi.
Si verso’ un calice di Negramaro e rispose al telefono che squillava.
“Sono arrivata, tesoro. Un viaggio tremendo. Ero circondata da bambini piagnucolanti. Uno mi ha rovesciato un bicchiere di succo d’arancia sulla camicetta.”
“Dev’essere stato tremendo.”
“Di più. Per fortuna, tornando, ho fatto amicizia col tassista. Un moro alto un metro e novanta con gli occhi verdi. Un certo Samuel. Ci siamo scambiati il numero. Magari gli chiedo se ha un amico, che ne dici?”
“Magari no.”
“Mmm. Ti sento giu’, tesoro. Sicuro vada tutto bene?”
“Sono solo molto stanca.”
“Cazzo. Proprio stasera che avevi voglia di rubare un’auto e partire all’avventura.”
“Già. Che sfortuna, vero?”
Mise in padella un piatto pronto surgelato e gli diede una mescolata.
“A proposito, non so se è il caso di dirtelo” una pausa “Antonio si sposa.”
Alice fermo’ il mestolo.
Tre anni di fidanzamento. Mille “Ti amo” soffocati nel cuscino. Due amanti.
“Sono felice per lui” menti’.
“Ora devo proprio andare, pero’. Scusami. Ci sentiamo domani.”
Un respiro dall’altro capo.
“Tesoro, sicura di stare bene?”
Alice non rispose. Spense il gas e andò in bagno.
Si guardò allo specchio.
Cosa restava di quella bimba? Di quelle speranze, di quella vita desiderata, di quel principe azzurro mai trovato che si era presentato ogni volta alla sua porta con un nome diverso?
Restava un sorriso incerto, un neo sul naso che odiava, una mascella severa, dei capelli ne’ ricci ne’ lisci. Insicuri, indecisi, come lo era lei.
Lì accarezzo’ con una mano. Lì afferrò e tiro’, quasi volesse strapparli.
Poi si piegò su lavandino e cercò di piangere.
Ma neppure le maledette lacrime volevano obbedirle.
Allora sai che fece?
Uscì di casa correndo, dimenticandosi di chiudere a chiave.
Cazzo, ti hanno fregato la macchina proprio qua fuori.
“Devo andarmene da questa città”.
Corse e corse, fino a sentire le caviglie doloranti chiedere aiuto. E poi corse ancora.
Un pullman si fermò accanto a lei. Un cartello sul parabrezza diceva “Porto”.
Alice non ci pensò un solo istante e sali’.
Si sedette in fondo, con le luci della città che le sorvegliavano la nuca attraverso il vetro.
S’infilò le cuffie nelle orecchie e chiuse gli occhi.
Il pullman comincio a tremare e si mise in marcia.
Si allontanò dalla sua vita.
Si risvegliò a notte fonda.
Una luce intermittente, l’autostrada al di fuori del finestrino. Un ragazzo accanto a lei che leggeva un vecchio romanzo di Hemingway.
Lui le offri’ un sorriso.
“Sei tornata in vita” disse senza distogliere lo sguardo dalla Fiesta “Ti davamo già per morta”.
Alice si stropicciò gli occhi.
“Dove sono?” mormorò.
“Sul peggiore pullman mai creato da un essere umano” fece lui abbozzando una smorfia “Ma se vuoi che sia più preciso temo di doverti deludere. Potremmo essere dovunque. E, a dirla tutta, credo che l’autista sia ubriaco. Prima l’ho visto svuotarsi una bottiglietta che non sembrava affatto caffè.”
La ragazza si aggrappò al sedile e si guardò attorno.
“Dio mio, credo di aver fatto una grande cazzata.”
“Dimmi di più” s’interesso’ lo sconosciuto chiudendo il libro.
“Io non dovrei essere qui” balbettò lei cercando di alzarsi.
Il pullman sobbalzo’ e lei ripiombo’ giù.
“Interessante. E dove dovresti essere?”
“Dovrei essere a casa mia. Nel mio letto. Ecco dove dovrei essere.”
“Da sola o in compagnia?”
Mille amanti da dimenticare…
“Da… da sola.”
“E allora? Potrebbe essere meglio di così? Hai dormito accanto ad uomo che, mi permetto di vantarmi, non è affatto da buttare via. Sei in viaggio verso una città tutta da esplorare e, il fatto che l’autista sia ubriaco, da’ anche quel pizzico di brivido che non guasta.”
“Ma il mio lavoro… la mia vita…”
Il ragazzo accantonò la questione con un gesto.
“Tutte stronzate.”
Poi allungo’ una mano.
“Ma partiamo dall’inizio. Come ti chiami?”
Lei, titubante, si perse nella sua stretta confidenziale.
“Alice” sussurrò.
“Benone. Alice.”
“E tu?” lo guardò a lungo negli occhi senza rendersene conto “Come ti chiami?”
Lui accenno’ un mezzo inchino.
“Mi permetta di presentarmi, bellissima bambina sperduta. Io sono il Bianconiglio.”
Il pullman sobbalzo’ di nuovo e Alice si ritrovò in braccio alo sconosciuto.
“E, se la cosa la rende felice” aggiunse il Bianconiglio in una risata “Alla guida di questa trappola infernale, c’e’ niente di meno che il Cappellaio Matto.”
Alice rise, come non le succedeva da tempo.
Inaspettatamente , il ragazzo, le prese la mano e la fissò.
“Seguimi” le disse semplicemente.
E lei lo fece.
Alex Rebatto