Il mercato e il denaro. Oggi il mercato e il denaro ci appaiono naturali e scontati come l’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo, ma in realtà né l’uno né l’altro sono sempre stati con noi. Ed è bene ricordarselo quando si parla di cose economiche, perché impazzano ideologie che mettono il mercato al centro di tutto (o lì vorrebbero che fosse) e non sanno rispondere alla domanda: “Ma visto quanto ti costa mantenere tua madre quando è vecchia, perché non la metti all’asta fra i possibili acquirenti?”. Oppure all’altra: “Dato che per fare un bambino ci vogliono un sacco di soldi, perché non comprarne uno bell’e fatto nel Malawi?”
Nelle comunità antiche quasi tutti erano impegnati nella produzione. La crema della società era costituita dai sacerdoti (o sciamani), che pregavano per tutti, conservavano il sapere e cercavano di mantenere l’armonia fra la comunità e il mondo sovrannaturale, e dai guerrieri, che difendevano ciascuna comunità dalle altre. Gli altri producevano i beni e i servizi, più o meno di buon grado ne passavano una parte alle classi superiori, e si spartivano il resto senza l’intervento del denaro.
Il commercio estero ai tempi dell’Iliade. Nelle comunità più primitive il commercio estero riguardava solo beni di natura straordinaria, investiti di significati quasi divini: le armi, i gioielli, alcuni arnesi speciali, e i metalli di cui tutte queste cose erano fatte. Erano pezzi singoli, uno differente dall’altro, e venivano scambiati anche a lunga distanza e il più delle volte a credito (era un baratto, ma con un intervallo di tempo fra la trasmissione del primo bene e la trasmissione della sua contropartita).
Una situazione del genere si vede benissimo, in controluce, nell’Iliade e nell’Odissea. I personaggi non sono gente normale, sono eroi e semidei: gli altri compaiono quasi solo per essere uccisi da Achille o da Ettore sul campo di battaglia: “E il Pelide spense Pirlivoco Acciaronte e Tirliteo”, ecc. Prima di andarci, sul campo di battaglia, gli eroi e semidei avevano viaggiato, erano stati ospiti gli uni degli altri, si erano scambiati scudi, armature, elmi e cinte che Omero (o meglio, l’altro aedo greco cieco che si chiamava come lui e che è il vero autore dei due poemi, come ha dimostrato Niemasensu) descrive con ricchezza di particolari. Essendo fatti da esseri semidivini e proprietà di altri esseri semidivini, dovevano essere portentosi anche questi oggetti. Come minimo, erano fatti di metalli che richiedevano sforzi eccezionali e qualificati per essere scavati fuori dalle rocce, fusi e lavorati: la tecnologia non era alla portata di tutti, né era facile intraprendere lunghi viaggi per arrivare ai metalli o all’ambra. Si dovevano superare distanze molto grandi, viaggiando per strade rudimentali che attraversavano territori popolati da genti predaci e assassine. Ci volevano persone straordinarie per farlo, così come straordinari, divini o semidivini, erano gli artigiani in possesso delle tecnologie.
Gli eroi e i semidei dei due poeni omerici viaggiano un sacco. E perché lo fanno? Per commerciare. Ma non come i mercanti fenici dell’epoca di Omero, qui stare vetri colorati, tu dare unguenti. Era più onorevole viaggiare per saccheggiare che per scambiare pacificamente: così fa Ulisse sulla via del ritorno, e quando Nausicaa lo vede sulla spiaggia, povero come un rifugiato dei nostri giorni, e lo prende per un mercante, lui si offende. Il nobile viaggia per depredare e ridurre in schiavitù. Se incontra gente al suo livello che lo ospita, allora fa doni e ne riceve in cambio. Ma niente mercanteggiamento, tu mi dai questo, io ti do quello. Si prende quel che c’è e si dà quel che si ha. Certo, in questo modo i beni circolano.
Con una differenza rispetto ad ora: sono tutti oggetti unici. Oggi i caschi dei soldati sono prodotti in serie e uno è identico all’altro. Nel mondo di Ulisse ogni elmo è fatto con metallo di qualità diversa, in quantità e forma diversa, e magari ha fregi dove garba all’artigiano semidivino di esprimere il proprio spirito artistico. Quanto vale quell’elmo? La domanda non ha troppo senso, perché noi contiamo i valori in unità di denaro, e le unità monetarie come noi le pensiamo oggi quei tempi non c’erano. Non nel senso che non c’erano quelle di oggi, ma nel senso che proprio non esistevano vere unità monetarie. Le loro antenate erano le monete, fatte di metalli preziosi, con figure e iscrizioni che servivano a trasmettere al metallo il mana della divinità o dello Stato che le emetteva. Ma in un primo tempo, anche queste monete erano oggetti unici, una specie di gioielli la cui vocazione era di finire nei tesori dei templi per svolgervi un ruolo di natura religiosa. Ogni moneta aveva una sua storia del tutto individuale. Era stata barattata con altri oggetti preziosi, diversi da quelli con cui erano state barattate le altre. Aveva viaggiato da Neapolis a Paleopolis piuttosto che da Megara a Megara Iblea o dalla Kalê Polis alla Askheme Polis. L’aveva offerta al santuario Pirlonteo piuttosto che Balosso.
Resta che quando le monete uscivano dallo stesso conio erano tutte molto simili fra loro, e se stavano nel tesoro dello stesso tempio si vedeva benissimo. Risultava dunque più facile concepire l’idea che una moneta equivalesse a ogni altra coniata assieme, indipendentemente dalla diversità delle vicissitudini che ciascuna poteva aver attraversato. Una dracma è una dracma è una dracma, e ha sempre su la civetta della potente Atene e della dea Athena. Il metallo di cui sono fatte tutte le dracme viene dalla stessa miniera. Se perdi una dracma, te ne danno un’altra che va bene uguale. Ma provate a dire a Don Chisciotte che se perde l’elmo di Mambrino potrà trovarne un altro presso qualsiasi barbitonsore!
Dalle monete d’oro agli oboli di bronzo. Era un’idea nuova, questa dell’equivalenza, e aveva ancora un bel po’ di strada da fare. Le monete d’oro e d’argento si usavano per pagare altri oggetti prestigiosi, ma la vita di ogni giorno ne faceva a meno. I greci, un popolo di piccoli coltivatori individualisti, cambiarono le cose quando cominciarono a riunirsi nelle loro agorà per discutere gli affari della polis. Ebbero infatti l’idea della moneta divisionale – gli oboli coniati in metalli ordinari, con cui il cittadino poteva comprarsi un hot dog a una bancarella in piazza e quindi continuare a far politica invece di tornare a casa per il lunch. Non è un caso se la parola “agorà”, in greco moderno, vuol dire tanto “piazza” quanto “mercato”. La democrazia nasce insieme alle bancarelle che vendono cibi cotti sulla piazza del mercato, che è anche il luogo dove si dibatte e si vota.
Oggi questo modo di vedere le cose sopravvive nei rapporti non commerciali, che perfino nelle nostre società attuali continuano ad essere decisivi. Negli scambi umani più importanti, come l’amore o l’amicizia, non si cerca l’equivalenza precisa in dare e in avere: chi dà non calcola al centesimo il valore di ciò che dà né si aspetta di riceverne esatta contropartita. Chi non può dare perché vecchio o malato ha il diritto di ottenere dalla società di che vivere. Il mercato è importante, ma non è tutto. Non dobbiamo dimenticarcene mai.