Che il calcio possa essere visto sotto luci diverse da quelle del tifo o della sana attività fisica oggi sembra del tutto ovvio. Qual è il settore dell’economia che ha moltiplicato per sei i propri ricavi negli ultimi vent’anni? Non cercate la risposta nella diffusione dell’high-tech nella vita di ogni giorno: è appunto il settore del calcio, considerato sotto il suo aspetto economico. Il diluvio di denaro sta cambiando profondamente la situazione del “gioco più bello del mondo”.
Considerare il calcio come prima di tutto qualcosa che avviene in campo fra venticinque persone (più allenatori e panchinai) è un errore. Come ha osservato il sociologo Alessandro Dallago, è pazzesco, in una partita con 70.000 spettatori, badare solo a quello che fanno le venticinque persone in campo e ignorare bellamentel’aspetto rituale (striscioni, ole, canti) che coinvolge gli altri.
Il significato più profondo del calcio però va al di là anche di questo rito coinvolgente. Il calcio rappresenta oggi il più importante collante dell’umanità a livello mondiale – un’incessante celebrazione della nostra ancestrale discesa dagli alberi, che ha consentito di non usare in continuazione i nostri arti superiori. Come elemento unificante della specie, batte di gran lunga le religioni e la politica.
E al pari di religione e politica, il calcio è preso d’assalto dal business. Dagli anni Ottanta in poi, di pari passo con il diffondersi di televisioni private disposte a pagare per mandare in onda le partite, i club si sono messi a gestire tutta una serie di canali di reddito, dall’oggettistica alle sponsorizzazioni, dalla gestione di attrezzature sportive a un’offerta diversificata di intrattenimento. Club come il Manchester United o il Barça hanno agito da pionieri in questo campo. (E sia ben chiaro, di per sé questo non è un fatto negativo.)
A beneficiare di più dei nuovi flussi di denaro è la Premier League della Gran Bretagna. Tra i venti club mondiali più ricchi i soli non britannici sono il Real Madrid, il Barça e la Juve. In questa graduatoria il Paris Saint-Germain e il Bayern di Monaco sono al di sotto del carneadico club inglese Sunderland. Anche se la Brexit, in particolare con la caduta della sterlina, sicuramente nei prossimi anni modificherà il panorama.
I dirtti televisivi, che in Europa costituiscono la più grande voce di ricavo, sono distribuiti in modo piuttosto ineguale. Circa la metà degli introiti dei 679 club europei è di pertinenza di soli trenta. Quattro Paesi, Gran Bretagna, Spagna, Italia e Germania, fanno la parte del leone. Quella che sembra aver fatto più strada è la Spagna. Della quale, infatti, si sente sempre più parlare a livello internazionale anche in fatto di gioco.
Dato i soldi vanno sempre di più in acquisti di giocatori e allenatori, sta crescendo la sproporzione nei talenti disponibili, cosa che favorisce le nazioni più calcistiche.
Un effetto secondario, ma non particolarmente apprezzabile, è che i risultati delle partite sono oggi molto più prevedibili. Quando uno dei grandi club incontra uno dei piccoli, la sproporzione di talenti in campo è tale che il risultato è ben poco soggetto ai capricci di Eupalla. Se fra il 1985 e il 1996 nelle semifinali di Champions League solo due squadre su cinque venivano dai quattro Paesi leader, nel 2007-2016 ne venivano quasi tutte. Se c’è una morale, è quella – oh quanto inedita! – che a volte i soldi restringono il campo delle scelte.