Quindici giorni dopo la strage jihadista di Barcellona del 17 agosto e il successivo attentato a Cambrils (Tarragona), è stata confermata una notizia imbarazzante per il governo autonomo della Catalogna: il 25 maggio i servizi segreti statunitensi avevano messo in guardia la Spagna circa un probabile attentato dell’ISIS sulle ramblas di Barcellona nel corso dell’estate. Dal momento che le informazioni non indicavano nel dettaglio i possibili artefici, l’unica azione realizzabile consisteva nell’aumentare le misure di sicurezza, la cui responsabilità ricadeva sui Mossos d’Esquadra, ovvero la polizia autonoma della Generalitat de Catalunya. Che però in quel momento aveva altro cui pensare.
È vero che si tratta come al solito del senno di poi: quante volte saranno arrivati segnali di allarme rivelatisi infondati a posteriori? Ma è vero anche che in quel periodo la Generalitat – l’apparato di governo autonomo catalano – aveva priorità diverse, in vista del referendum illegale e anticostituzionale sull’indipendenza, previsto in origine per il 17 settembre 2017 e poi spostato al primo ottobre: una consultazione popolare sulla cui base il presidente del governo autonomo Carles Puigdemont intende proclamare immediatamente una Repubblica Catalana separata dalla Spagna.
Tra gli obiettivi degli ultimi mesi, più che la prevenzione del terrorismo, figurava dunque il controllo politico sui Mossos d’Esquadra, letteralmente “Mozzi di Squadra”, così chiamati in ricordo delle Squadre che dal XVI secolo fino all’avvento della dittatura franchista nel 1939 svolgevano funzioni di polizia nella regione. In caso di vittoria del sì all’indipendenza, è presumibile infatti che la polizia sia chiamata a sedare le proteste di chi è contrario all’ammutinamento, cioè quasi metà degli abitanti. Da tempo voci secessioniste minacciano ritorsioni sui poliziotti che non dovessero obbedire a un nuovo regime soberanista. Inoltre il 17 luglio il direttore della polizia autonoma, Albert Batlle, sostenitore della neutralità e del rispetto delle leggi, è stato costretto alle dimissioni e sostituito da Pere Soler: paradossalmente un capo della polizia che sostiene apertamente l’illegalità.
Del resto ormai sono anni che il governo catalano ignora ogni vera necessità del suo territorio per dedicarsi al cosiddetto Proces, il processo di indipendenza: dalla propaganda capillare – sfruttando anche eventi destinati all’infanzia per indottrinare le nuove generazioni – all’acquisto delle urne per il voto, fino alla Legge di Transizione (ancora da approvare) per uscire dalla Spagna.
Il passo successivo dopo l’indipendenza sarà l’occupazione delle regioni limitrofe, silenziosamente già in atto a livello culturale e linguistico, per creare un nuovo stato chiamato Paesi Catalani. Uno stato che – al pari della mitica Padania di Umberto Bossi – non ha vere basi storiche, dal momento che per secoli la Catalogna ha fatto parte del Regno di Aragona, che si estendeva sino all’Italia meridionale e in cui si parlavano latino, castigliano, catalano, occitano e molte altre lingue; per poi passare sotto il Regno di Spagna dopo l’unione delle corone aragonese e castigliana.
È bene precisare un dettaglio: la Catalogna, come tutte le regioni della Spagna, è tuttaltro che oppressa. Gode da trentotto anni di una forma molto ampia di federalismo, non solo sul piano del governo ma anche su quello linguistico. Anzi, dal momento che la lingua catalana è stata eletta come una delle quattro nazionali della Spagna insieme al castigliano (o spagnolo, come è noto in tutto il mondo), al basco e al galiziano, è stata imposta anche a territori vicini che pure avevano diverse lingue locali. Per esempio a Maiorca – dove si parlano spagnolo e maiorchino – tutte le materie scolastiche sono insegnate in catalano e per certi posti di lavoro, come il netturbino a Palma di Maiorca, se ne esige la conoscenza. Eppure buona parte della popolazione parla spagnolo in quanto originaria di altre regioni della Spagna o immigrata dall’America Latina. Senza contare l’importanza di spagnolo e inglese nei rapporti con i milioni di turisti che visitano ogni anno le Baleari. Da tempo si protesta invano contro questa “dittatura catalanista”.
È in atto anche una revisione della storia. Il 10 settembre 1229 gli aragonesi sbarcarono a Maiorca, dando inizio alla riconquista cristiana dell’isola – all’epoca stato musulmano – e arrivando a costituire il Regno di Maiorca, indipendente per secoli, che si sarebbe esteso anche su parte della Francia meridionale. Ora si legge spesso, invece, di una “riconquista catalana”, un falso storico che quasi accredita un inesistente dominio barcellonese sull’isola. Tanto varrebbe allora considerare Maiorca territorio di Pisa, dato che i pisani la occuparono tra il 1115 e il 1116; o direttamente italiano, visto che tra il 1936 e il 1939 l’isola fu sotto il controllo di Mussolini, alleato di Francisco Franco.
C’è già però una quinta colonna di giovani fanatici, come quelli del gruppo chiamato Arran, estremisti di sinistra che sostengono l’indipendenza dei Països Catalans. La sera del 22 luglio, unendosi al crescente movimento antituristico, alcuni di loro hanno dato l’assalto a un ristorante di Palma di Maiorca, azione molto rischiosa anche per la loro stessa incolumità dato che viviamo in tempi di terrorismo jihadista. Forse poi Arran dimentica che uno degli interessi principali del previsto Anschluss catalanista di Maiorca è proprio il turismo, fonte di guadagni essenziali per gli interessi capitalistici dei potenti di Barcellona, che di sinistra hanno solo una sbiadita etichetta. Di sicuro verrà risparmiato dalle mire imperialiste lo stato indipendente di Andorra, sui Pirenei catalani, paradiso fiscale in cui vari politici di Barcellona depositano abitualmente i loro fondi clandestini.
Ma, a parte il delirio di conquista di nuovi territori, per quali motivi la Catalogna, oggi, dovrebbe spezzare i legami con la Spagna? A livello politico, per una rivalità secolare che tuttavia ha avuto ragion d’essere solo durante la Guerra Civile (1936-1939) e la dittatura franchista (1939-1975) e che non ha più alcun senso dalla costituzione democratica firmata da re Juan Carlos I nel 1978, che ha appunto dato autonomia alla Catalogna. A livello popolare, perché le squadre più importanti del calcio spagnolo sono il Real Madrid e il Barça, e la gente comune crede che l’indipendenza sia un proseguimento del football con altri mezzi. A livello economico… nessun motivo, dato che la Catalogna è la regione spagnola che riceve i maggiori finanziamenti dal governo centrale di Madrid. A livello di potere, invece, moltissimi motivi: vari presidenti dell’autonomia catalana degli ultimi decenni sono sotto inchiesta per tangenti e, con l’indipendenza, si troverebbero come per magia fuori dalla giurisdizione dei tribunali spagnoli. Curioso a dirsi, l’altro ieri Joan Tardà, portavoce di Esquerra Republicana de Catalunya (Sinistra Repubblicana di Catalogna) al Congresso dei Deputati a Madrid, ha dichiarato che con l’imminente creazione della Repubblica Catalana all’indomani del referendum… sparirà la corruzione. Perché, come noi italiani sappiamo bene, nelle repubbliche governate da politici corrotti la corruzione non esiste affatto, giusto?
Così, sulla scia della Brexit – a forza di propaganda, populismo e condizionamento culturale – il primo ottobre poco più di metà dei catalani potrebbe votare in favore della secessione, imponendo la propria volontà al rimanente 48-49% o giù di lì, proprio come accaduto in Gran Bretagna. E la Generalitat dichiarerebbe automaticamente e unilateralmente l’indipendenza catalana, aspettandosi che la nuova repubblica venga riconosciuta da tutto il mondo. Forse per questo in aprile Carles Puigdemont ha fatto un viaggio negli USA, chiedendo udienza – dietro compenso – all’ex-presidente Jimmy Carter e facendosi fotografare insieme a lui; l’ufficio di Carter ha in seguito smentito qualsiasi appoggio alla causa catalanista. E ora il governo centrale di Madrid controlla che non vengano spesi altri soldi pubblici a scopo di propaganda o di realizzazione del referendum.
Ma quali sarebbero le conseguenze di ciò che già nel 2015 è stato battezzato Catalexit? La fuga degli imprenditori è già cominciata, ma quelli che hanno forti radici nella regione saranno costretti a ossequiare il nuovo regime, anche se dovranno far fronte a problemi gravissimi, quali l’uscita da Spagna, Europa ed euro, che renderà estero buona parte di quello che ora è un mercato nazionale. L’aeroporto di El Prat, Barcellona (sopra nella foto) diverrà uno scalo al di fuori dell’Unione Europea e degli accordi di Schengen.
Dal momento che la Liga, il campionato di calcio, è già cominciata, si presume che per quest’anno il Barcellona continuerà a giocare in Spagna, ma dall’anno prossimo potrà fare a meno di mettere sotto contratto star internazionali, perché nel campionato catalano dovrà affrontare solo squadre di serie B. Quanto ai mondiali del 2018, se la Spagna si qualifica, non così l’ancora inesistente nazionale della Catalogna. I tifosi catalani dovranno guardare le partite degli altri su un canale tv spagnolo e quindi “straniero”, mentre i loro calciatori rimangono a casa. Forse solo allora in qualche cervello comincerà a manifestarsi la coscienza di avere commesso un tragico errore.
Tra un mese esatto, insomma, la Catalogna potrebbe innescare una situazione disastrosa, in nome di un presunto rispetto della democrazia. Non è un caso se all’estero il maggiore sostenitore del Proces è Nicolas Maduro, il presidente-dittatore venezuelano, che mesi fa si è fatto fotografare mentre reggeva la bandiera catalanista. D’altro canto c’è un forte legame tra Maduro e il movimento politico spagnolo Podemos, acceso sostenitore della deriva indipendentista. Una volta di più, il problema della democrazia è che non può impedire i suicidi collettivi.
(Andrea Carlo Cappi)