Qualcuno butta fuori un po’ d’aria e tutti si innervosiscono. Non sto parlando di un ascensore affollato, ma dei mercati finanziari mondiali. L’aria, la scorsa settimana, è stata emessa da Mario Draghi, e veicolava parole sul programma di acquisti di titoli di debito pubblici e privati.
Parole, ma non novità. Il presidente della Bce ha parlato del programma di acquisto di titoli del debito pubblico e di titoli privati, che configura una politica monetaria fortemente espansiva. Ogni mese la Banca Centrale Europea compra titoli per 60 miliardi di euro, iniettando nel sistema altrettanta liquidità. I tassi d’interesse per l’Eurozona sono intorno a 0%.
Ha detto Draghi: «Dopo molto tempo stiamo infine assistendo a una robusta ripresa, e dobbiamo solo aspettare che salari e prezzi seguano una strada che li porterà al nostro obiettivo. L’ultima cosa che il Consiglio Direttivo vuole è un’ingiustificata restrizione o condizioni che possano rallentare o addirittura porre a rischio questo processo». In sostanza, ha solo confermato che la politica monetaria della Bce continuerà finché l’inflazione non sarà al 2% annuo fissato come obiettivo.
Le notizie, chiaro, non cadono mai nel vuoto. I mercati, un mesetto prima, si erano già esagitati per precedenti esternazioni draghensi in terra di Portogallo – anch’esse semplici conferme della politica in atto, senza novità – e questa volta hanno corretto il tiro. Le Borse sono migliorate, l’euro si è rafforzato, i tassi sul debito pubblico sono scesi. Il contrario di quanto era successo l’ultima volta.
Fin qui tutto bene, anche se è la cosa giusta per il motivo sbagliato. Una simile inconsulta reattività fa parte del sistema di mercato. Può e deve essere corretta, addolcita, ma non si può togliere di mezzo. Altrimenti ci ritroveremmo in uno di quegli sgorbi socioeconomici che erano i sistemi dell’Europa Orientale, con tutte le loro conseguenze di autoritarismo politico.
Il problema tuttavia non è questa o quella oscillazione di breve periodo. Potranno volerci due anni perché la Bce ritorni alla neutralità monetaria, ma non c’è dubbio che alla fine lo farà. Il processo comporta il progressivo aumento dei tassi sul debito pubblico. L’Italia, con un debito pari al 130 per cento del pil, sarà sempre meno in grado di finanziarsi praticamente gratis come sta facendo ora. Il problema è che anche un punto in più nei tassi d’interesse costa allo Stato miliardi di euro, cioè comporta più deficit e meno risorse per il rientro dal debito. In altri termini, maggiore instabilità e fragilità.
Certo, la via maestra per ridurre il peso del debito sarebbe una maggiore crescita insieme a un 2% di inflazione. Con una crescita nominale del 5%, un tasso d’interesse del 2% comporterebbe un 3% di riduzione del rapporto debito-pil. Non è molto, ma darebbe fiducia agli investitori e stabilizzerebbe i tassi. Però una maggiore crescita possiamo desiderarla, al più facilitarla con misure microeconomiche – ma non possiamo determinarla. Quello che il governo può fare è arrivare al momento della verità con alle spalle qualche anno di calo del debito e del disavanzo. Voi vedete o sentite qualcosa che faccia pensare che a Roma siano consapevoli del problema? Gentiloni si espone poco, è giustamente schivo e non gradasso come i presidenti del Consiglio prima di lui; bravo; ma mentre lui “sta sereno”, il redivivo e francamente ormai più che rottamabile Renzi parla di alzare il deficit – come se l’Italia mai potesse prendere una simile iniziativa senza una svolta di tutta l’Europa. Certo, l’austerità deve sparire; ma con l’austerità non si gioca. Il farlo potrebbe costarci molto caro.
Gli ultimi libri di Paolo Brera: