C’è un’alternativa al sistema monetario mondiale incentrato sul dollaro? Forse sì, o perlomeno si sta delineando. Sono ormai molti anni che la Cina critica l’impero del dollaro e muove passi verso un sistema multipolare. Le idee avanzate dalla Cina, e condivise anche dalla Russia e con più discrezione da altri Paesi, finora non hanno attecchito, perché gli Stati Uniti sono sempre stati in grado di mantenerle, nell’insieme, allo stato di pura proposta.
Il vantaggio di emettere la moneta mondiale è chiaro. Per il Paese emittente, infatti, creare nuova moneta si traduce in un guadagno importante e del tutto gratuito, il cosiddetto “signoraggio”. Ogni dollaro creato di fatto compra all’economia americana un dollaro di beni o servizi prodotti all’estero, e se poi rimane in circolazione, non si traduce mai nell’uscita di un dollaro di beni o servizi made in USA. Questo effetto, è stato calcolato, vale ogni anno un 3% del pil.
Anche se la maggior parte dei dollari “gira” nei circuiti della finanza, la base di tutto questo movimento resta pur sempre negli scambi commerciali. Ed è proprio qui che la Cina si muove per scalzare la moneta americana. Pechino sta infatti cercando un accordo con Riad per pagare i suoi acquisti di petrolio non più in dollari, ma in yuan, come già avviene negli scambi con la Russia.
Dal 1974 l’Arabia Saudita accetta dollari in pagamento della quasi totalità delle sue esportazioni di greggio. E la Cina, che dall’anno scorso è il primo importatore, superando gli Stati Uniti, ha sempre saldato la sua bolletta petrolifera in dollari.
Oggi i tre maggiori fornitori di petrolio alla Cina sono la Russia, l’Arabia Saudita e l’Angola. Gli scambi commerciali cino-russi sono retti da un accordo bilaterale che consente di utilizzare l’una o l’altra delle valute nazionali; di fatto, però, il 97% dei pagamenti viene effettuato in yuan e non in rubli. La Russia utilizza gli incassi anche per operare in oro sulla Borsa di Shanghai (che sta detronizzando quelle occidentali negli scambi sul metallo prezioso) e per emettere debito denominato in yuan, due cose che rafforzano ulteriormente la valuta cinese.
Tutto ciò già rende più appetibile il passaggio allo yuan anche per l’Arabia Saudita, ma non finisce lì. Per spingere la sua proposta, la Cina ha anche tagliato le sue importazioni di petrolio saudita, passate dal 25% del totale nel 2008 a meno del 15% oggi. I sauditi se ne preoccupano ed è per questo che l’accordo è dato per imminente. E promette di essere un altro piccolo colpo all’egemonia del dollaro, che sta perdendo quota ormai da un ventennio. Paolo Brera