C’è un uomo di ottantasei anni sdraiato su un letto di una clinica universitaria di Parma.
La sua cartella clinica parla chiaro: problemi cardiaci, renali e parkinsonismo vascolare.
Ognuno di noi, anche la peggior carogna, forse, si commuoverebbe. La fine di una vita, la decorrenza dei termini, rappresenta da sempre il pretesto per potersi stringere in un abbraccio collettivo.
Ti siamo vicini, amico.
Eppure, negli ultimi giorni, del vecchio in questione si sta parlando in continuazione. Forse persino troppo.
Non si tratta di un uomo qualunque. Non è il custode del nostro stabile, quello che abbiamo visto il giorno in cui abbiamo preso possesso della nostra abitazione e, da allora, è latitante.
Non si tratta del simpatico fruttivendolo che si fermava con un cesto di fragole in mano a seguire il culo della sinuosa mora di passaggio.
No. Si tratta del più grande criminale mai esistito.
Totò Riina, il capo dei capi, il gran mogol della cupola mafiosa, sta per tirare gli ultimi.
Incredibile come passi velocemente il tempo.
Nel 1992, ben venticinque anni fa, ordinava di far saltare in aria il giudice Falcone e la sua scorta. Un paio di mesi dopo Borsellino. Un’escalation di follia. Nel 2014, quattro minuscoli anni fa, veniva intercettato nel carcere milanese di Opera:
“A Nino Di Matteo lo faccio finire peggio di Falcone”.
Ed eccoci ai giorni nostri.
Nino Di Matteo, presidente dell’associazione nazionale magistrati di Palermo, sta benone. Ogni tanto qualche raffreddore, due linee di febbre ma, in sostanza, gode di ottima salute.
Totò, mischineddu, fa l’equilibrista sull’orlo della fossa.
Nessuno ha ordinato dovesse essere così. E’ capitato.
Ma ecco il colpo di coda del piccolo corleonese di fibra robusta. Il suo avvocato, Luca Cianferoni (fiorentino dalla lunga esperienza) chiede per il suo assistito il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare.
“Il Signor Riina merita una morte dignitosa”. La cassazione accoglie per la prima volta il ricorso.
Attenzione: il SIGNOR Riina. Come se si stesse parlando di un individuo qualsiasi, il portinaio o il fruttivendolo del vostro quartiere, appunto.
Com’era in preventivo si è sollevato un vespaio di polemiche, di dubbi, di ricordi.
“Falcone e Borsellino sono morti in maniera dignitosa?” ha inveito qualcuno.
“Non esiste dignità per un uomo come quello” ha ribadito qualcun altro, in maiuscolo “Le leggi vanno a farsi fottere in questi casi.”
Politici, giornalisti, uomini di spettacolo, semplici osservatori. Ognuno si è sentito motivato ad offrire la propria opinione.
Enrico Mentana, in un suo post, ha sottolineato l’importanza della legge italiana e la necessità di doverla rispettare.
I buoni, quelli che dicono “Noi non siamo la mafia. Noi dobbiamo dare un esempio dimostrandoci superiori” e i cattivi “Dategli i domiciliari a casa mia e vi risolvo il problema in mezz’ora”.
Insomma, Totò Riina fa discutere ancora.
La mafia non è mai stata sconfitta. Lavora sottotraccia, più astuta e meno casinista.
Muove ancora montagne di soldi e gestisce appalti, politici, giri di droga e miserie pronte ad ingigantirsi.
Riina è un reduce del vecchio sistema, quello solo in apparenza sconfitto. Ma, appunto, ne rappresenta ancora la sostanza. Anzi, il ricordo doloroso.
Personalmente non riesco a provare pietà per un simile individuo (e sottolineo individuo. Gli uomini sono ben altri) ma solo disprezzo. Lo riesco ad immaginare in quel letto della clinica di Parma, con i suoi acciacchi, le sue fitte dolorose, le sue vertigini.
Lo vedo.
Lo sento respirare affannosamente, sotto un lenzuolo bagnato di vecchio sudore, in un corpo sgonfiato dagli anni e dalla malattia. Un corpo insignificante.
E proprio per questo motivo, per il suo essere insignificante, mi piacerebbe cadesse il silenzio sulla sua prossima dipartita, sulle sue nefandezze, sulla sua indimenticata malvagità.
Che Totò Riina muoia nello stesso silenzio che segue ad un’esplosione.
Che muoia solo, nella sua vergogna. Nella nostra memoria.
In fondo siamo solo di passaggio.
E lui non è altro che un appartenente a quella “montagna di merda”, citando Impastato, che siamo stati così sfortunati a calpestare negli anni.
E come tale ce ne libereremo.
ALEX REBATTO