Porto Valtravaglia si appoggia sulle sponde del lago Maggiore e s’inerpica attraverso stradine quasi impercorribili in auto. Le case, resistite alla guerra, sembrano affreschi apparentemente lontani dalla città tentacolare, con il suo caos, la sua routine frenetica.
Il vento lacustre soffia forte facendo sbattere qualche persiana, una pioggerellina d’antipasto che preannuncia la grandinata serale.
Dopo aver parcheggiato, in patetico ritardo, mi sono incamminato lungo il viottolo in salita. Alla mia destra, su un muretto che si affacciava senza impedimenti sulla maestosità del lago, un gatto rosso sonnecchiava quieto. Ho provato a immortalarlo col mio cellulare ma si è dileguato troppo in fretta.
Una signora poco lontano, intenta a raccogliere la posta, mi ha sorriso.
“Sei tu, vero?” mi ha fatto strada all’interno di un casolare elegante e dal sapore antico.
Lui, il più storico dei cantastorie milanesi, sedeva al tavolone della sala da pranzo. Ha picchiettato sull’orologio con una smorfia sarcastica e mi ha stretto la mano.
“Ci beviamo un caffè?” ha esordito con quella voce così famigliare.
Eccoli lì, Nanni Svampa e l’affascinate consorte, sposati da 51 anni. Si scambiano un’occhiata complice mentre butto lì qualche parola di circostanza sul caffè migliore, sui figli e sul complicato mondo editoriale. Poi lei, discreta, si allontana e ci lascia soli.
“Tu sei di Trezzano?” mi dice Nanni sorseggiando il suo caffè “Noi andavamo a mangiare spesso da quelle parti. Al Mago, esiste ancora? Alle due di notte era ancora aperto, c’era questo camino enorme. Lui, con questa faccia da pazzo era uno dei pochi che teneva aperto fino a tardi e noi da Milano, finito a teatro, andavamo lì.”
Ma dobbiamo partire dall’inizio, come ogni bella storia che si rispetti.
In uno spettacolo lo sentii dire che per assurdo, grazie alla guerra, aveva avuto un’infanzia fantastica.
“Io sono nato a Milano” ricorda “A due anni, quando è scoppiata la guerra, siamo stati tutti sfollati a Sangiano, un paesino dell’alto varesotto. Era il paese di mio nonno. Si viveva in una grande casa rurale con davanti orti e frutteti, C’era la stalla con tutti gli animali e pensa, per un bambino, che meraviglia potesse essere avere attorno i maiali, le mucche e le galline. Io saltavo sui carri e andavo a fare il fieno nei campi più lontani, giocavo sotto l’immenso portico della casa, facevo le frecce con le aste degli ombrelli per tirarle agli uccelli, beccando però solo le mele, ovviamente. L’unica volta che ho sentito, realmente, la presenza della guerra è stato quando una volta, accompagnando lo zio con la morosa, su in cima al monte dietro a Sangiano, ho visto un aereo che andava a mitragliare Intra.”
I Gufi
Mi permetto un discreto salto temporale.
“Come avvenne l’incontro con I Gufi?” domando.
“Vedi, i Gufi nacquero in progressione. Quando tornai dal militare mi convinsi di voler fare cabaret. C’era il mio amico Pio Borella che scriveva canzoni. Lui abitava in via Vitruvio a Milano e io in via Ponchielli, quindi ci si trovava al Bar del Motta e si andava in San Babila a mangiare un toast e a chiacchierare. Lui mi disse che c’era un night dove si poteva combinare qualcosa. Il proprietario di questo locale aveva anche il Santa Tecla, dove si esibiva Patruno con la sua band. Insomma, per fartela breve, decidiamo di organizzare uno spettacolo lì ma ci rendiamo conto che manca qualcosa, una figura importante. Allora andiamo al Derby e scopriamo questo tizio che quando si esibisce sembra un corvo appollaiato e canta canzoni macabre. Era Brivio. Morale, si sono uniti a noi anche Magni, un mimo formidabile e la mia soubrette. Quindi all’inizio eravamo in cinque. Ci siamo esibiti in vari locali finché, in estate, la ragazza ha mollato e noi abbiamo messo su uno spettacolo di jazz e cabaret al Lanternin, un locale che faceva concorrenza al Derby, assieme a dei nomi della Madonna come Valdambrini, Zamboni, eccetera. Abbiamo avuto un buon successo anche se, l’esplosione, è stata a Torino. Noi, però, abbiamo frequentato poco i locali. Pensa che un anno eravamo giù alla Bussola di Viareggio che facevamo cabaret nella parte alta mentre di sotto c’era il grande musical, arriva il famoso impresario teatrale Remigio Paone e ci propone quattro anni di contratto in teatro.”
“Ma se andavate così forti, perché rompere il sodalizio?”
“Si dice che l’idea di rompere fosse di Magni, in realtà due mesi prima volevo già farlo io. Il nostro ultimo spettacolo (Non spingete, scappiamo anche noi – 1969) era obiettivamente brutto. Eravamo tutti stufi, anche Patruno. Il problema sai qual è? Che non era maturato un progetto di ritorno al nostro stile, quello dei tempi di “Non so, non ho visto, se c’ero dormivo” (1967). Noi siamo andati in tour per due anni e ogni tanto c’era uno che diceva di aver scritto qualcosa. Ma non c’era convinzione, nonostante i pezzi fossero frutto di esperienze diverse, legate alle nostre individualità, non c’era più modo di reinventare la miscela esplosiva che sapevamo garantire all’inizio. Quindi si arrivò a Magni, che pensava di essere l’unico in grado di far ridere, deciso a chiudere. Lui poi fece uno spettacolo giù a Roma su Adamo ed Eva, di cui ho ancora le scene giù in cantina, che non andò bene. Lui era quello che conduceva alla comicità più immediata, quella visiva, ma da solo funzionava meno. Io poi feci tre anni con Patruno e Franca Mazzola, debuttando al Piccolo Teatro, poi lei se ne andò e rimanemmo noi due, fino al 1975. Quell’anno mettemmo in scena uno spettacolo pericoloso, sui fascisti e il vaticano. Arrivarono a minacciarci e Patruno preferì, dopo una chiacchierata notturna a base di whisky, tornare a fare il jazz. Io mi misi a fare concerti, variando da Brassens alla canzone popolare, fino a creare il mio cabaret concerto che è andato avanti in continua evoluzione per trent’anni.”
“E’ cambiato tutto. C’era l’osteria, ad esempio, con gli amici, il proprietario. Tutti lì a cantare, a bere. Alla Briosca, ad esempio, era uno show continuo. Facevano in una notte la parodia dell’Aida. Poi c’era una soubrette che era un vecchio ballerino gay di Wanda Osiris, le canzoni scollacciate. Io frequentavo un posto più tranquillo, in Precotto. In una via laterale, in questa piccola osteria, c’era il Berto, un personaggio incredibile. Attaccava a fare stornelli e andava avanti per un giorno intero. E’ stato lui ad insegnarmi la canzone popolare. Vedi, tu hai ragione, la città è cambiata. Lascia perdere il romanticismo delle case di ringhiera, che di romantico non avevano un cazzo, specie quando dovevi andare a pisciare fuori, in inverno. Io sono vent’anni che non vivo più a Milano perché non la sopportavo già più. E’ una città piena di maleducati, che parcheggiano dove capita, che non hanno rispetto per nessuno. Poi la sporcizia, i grattacieli dove vanno ad abitare quelli pieni di soldi. Si è snaturata, ha perso le sue radici. Certo, dirai, la globalizzazione e via discorrendo. Ma è ovvio che non si possa mantenere l’identità in una capitale economica come Milano. La puoi mantenere, al massimo, in un antico bellissimo paese sulle colline dietro a Foggia, ad esempio. Io non posso giudicare ora, che ho ottant’anni, ma non so quanto i giovani siano contenti di questa Milano.”
Nanni Svampa & Georges Brassens
Torno sull’argomento musica.
“Brassens ha rappresentato per te un punto di riferimento. E’ una leggenda della musica d’autore eppure, se tu e De André non lo aveste fatto conoscere anche in Italia, in pochi saprebbero che è mai esistito.”
“Stai parlando di un fenomeno incredibile. I miei dischi nei quali ho tradotto e ricantato i suoi testi, forse usciti troppo in ritardo, non hanno incontrato il successo sperato. Il gusto della sua ironia, della sua poesia, non è stato percepito. Considerato il poeta francese più grande del ‘900, da noi, ha funzionato di più Azanavour, che non è proprio la stessa cosa. Il problema della conoscenza o no di un personaggio, di un lavoro, è quasi sempre in mano ai discografici. Ti faccio un esempio, io nel 1980 pubblicai un disco oggettivamente bellissimo, che s’intitolava “Riflusso riflesso”, ricco di satira e romanticismo. Mi mandarono in televisione una volta e poi fu accantonato perché io, per i discografici, vendevo solo ai milanesi.”
“E il cinema?” provo a chiedere.
“All’epoca gli agenti mi proposero diversi film, anche impegnati. Ne feci uno con Pozzetto, ma così, niente d’importante. Credo di non essere mai arrivato al pubblico, ma nemmeno al personaggio. Io sono un animale da palcoscenico. Il cinema, così come la televisione, che ti mette delle regole, delle linee sulle quali fermarti, non ha mai fatto per me. Non è mai stato il mio mondo.”
Nanni Svampa & Davide Van de Sfroos
“Davide Van de Sfroos è il tuo erede?” domando a bruciapelo.
“Perché dovrebbe? I Sulutumana sono i miei eredi? Esistono, certo, delle similitudini tra me e Davide. Ci sono delle storie nebulose di paese, sulla nonna, il maresciallo, che però sono raccontate con uno stile tutto suo. Lui ha scritto delle cose meravigliose, anche se ho dovuto leggere spesso le traduzioni perché il dialetto di Lenno è per me a volte incomprensibile. Se per eredità intendi che usa il dialetto, allora va bene. Ma quello è un aspetto formale. Ad ogni modo lui è bravissimo.”
“Ti manca suonare dal vivo?”
“Moltissimo. Mi manca quella vita oltre al palco vero e proprio che ti tiene in contatto con il pubblico. Una volta ero con un mio amico che mi ha detto di piantarla, di mettermi il cuore in pace. Io gli ho chiesto se lui, che aveva fatto il commercialista, aveva la nostalgia dei suoi clienti. Lui, ovviamente, mi ha risposto di no. Io invece del mio pubblico si, e tanto.”
“Ma ovviamente non se parla?” ho domandato, senza nascondere la speranza.
Lui, il cantastorie non ancora rassegnato, ha fatto un sospiro triste.
“Ho avuto un po’ di casini di salute. Mi hanno vietato lo stress di un concerto vero e proprio, però…”
C’è un però.
“Però sto organizzando una cosa con due giovani musicisti, Luca Maciacchini, chitarrista e cantautore, Cristina Meschia e Flavio Oreglio. L’idea è aprire lo spettacolo con Flavio che mi fa un’intervista nella quale si raccontano le storie di gioventù, gli aneddoti, poi i ragazzi che si esibiscono, una raffica di mie storielle e battute e infine, tutti assieme, sul palco a cantare Porta Romana. Vorremmo poi mettere alle spalle un telo con i vecchi filmati, le foto. Lo spettacolo si chiamerà “In Bocconi ci andavo a spizzichi.”
Io scoppio a ridere, Nanni Svampa a ruota.
“Questo titolo vale il biglietto” concludo alzandomi.
Lui, il vecchio giovane, qualche acciacco e una prontezza di risposta insolita persino per qualche mio coetaneo, mi firma un disco. Poi mi accompagna alla porta.
“Salutami la tua signora” allungo la mano.
Nanni la stringe e poi mi prende sottobraccio.
“L’hai mai sentita quella del padre che racconta alla figlia di quando a Parigi…”
E mentre fuori dalla porta di un casolare elegante e dal sapore antico si sente ridere di cuore, sotto una pioggia torrenziale, un gatto rosso è ritornato sul suo muretto, temerario e ostinato.
Cose che succedono da quelle parti, tra l’eco di un canto d’osteria e il vento che vorrebbe spazzarlo via, in soffitta.