Alberto Savi, ha avuto un permesso premio. Un tempo faceva il poliziotto. Coi suoi due fratelli diede vita alla banda della Uno Bianca, che ha sulla coscienza 24 omicidi. Cosa c’era dietro?
Faceva il poliziotto. Coi fratelli fu il protagonista di sette anni di terrore. E identificò un’auto con l’incubo di Bologna. Erano quelli della banda della Uno Bianca. Ventiquattro omicidi sulle spalle. Diversi dagli assassini comuni, perché loro erano quelli che li dovevano prendere. Diversi dai serial killer, perché non erano pazzi. Diversi dai terroristi, perché con l’eversione non c’entravano nulla. Ora Alberto Savi, fratello minore di Fabio e Roberto, l’ossatura della gang, è andato in permesso premio. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione delle vittime, è rimasta sconcertata: «Non lo so, non so perché abbia ottenuto questo permesso premio. Certo non lo ritengo giusto. I nostri morti non li ottengono, i permessi premio. E per sette anni la banda dei Savi ha fatto quello che ha voluto, uccidendo con crudeltà disumana. Hanno reciso giovani vite, hanno rovinato famiglie. Perciò, non avrei accordato nessun permesso».
Il legale di Alberto, l’avvocato Annamaria Marin, ha detto detto all’Ansa che «il giudice ha tenuto conto di un percorso di revisione critica fatto nel carcere di Padova. La sua condotta, il riconoscimento delle proprie responsabilità e il rispetto per le vittime: è stata fatta una valutazione di lunghissimo periodo, considerando che gli operatori lo hanno avuto sotto gli occhi per 17 anni». Di più. Avrebbero inciso molto pure «i contatti con alcuni religiosi che lo hanno seguito e sostenuto il suo percorso». In diciassette anni deve essere cambiato davvero molto. Perché la banda della Uno bianca la pietà non l’ha mai conosciuta.
La banda
Diciannove febbraio di ventinove anni fa. Di questi tempi, dunque. Sembra una giornata come tante, a Casalecchio di Reno, cintura di Bologna. Il solito turno a prelevare il denaro dalla cassa continua del supermercato. Le guardie giurate scendono dal furgone. Ma poco dopo un ordigno artigianale esplode. Allarmato, un altro vigilante, Carlo Beccari, 26 anni, spalanca la portiera e fa per gettarsi in soccorso. Viene però raggiunto da una sventagliata di proiettili, che lo uccide. Ad ammazzarlo in un folle agguato è stato un gruppo di tre persone. Due di loro sono poliziotti. Ma questo verrà fuori solo molti anni più tardi. All’inizio si pensa infatti ad un’azione terroristica, poi a malviventi comuni.
Invece no. La banda che diverrà nota come la banda della Uno Bianca, dal nome delle auto che usano per compiere le rapine, è di ben diverso genere. Ed è già arrivata al secondo delitto. Diciannove giorni prima di Beccari, è toccato farne le spese ad un’altra guardia giurata, Giampiero Picello, ammazzato durante un colpo alla Coop di Rimini. Ma è comunque ormai un anno che la strana gang mette in fila una serie di reati. E, quando cominciano a spargere sangue, non si fermano più. Il 20 aprile 1988 muoiono a Castel Maggiore, hinterland di Bologna, due carabinieri che hanno fermato la loro macchina. Il 15 gennaio 1990 una bomba esplode all’ufficio postale di via Mazzini ferendo decine di persone. Il 23 dicembre la banda spara sulle roulotte di un campo nomadi, uccidendo un uomo e una donna. Passano quattro giorni e, all’ennesima rapina – da un benzinaio a Castel Maggiore- altri due vengono assassinati. L’Emilia Romagna è nel pieno del terrore. Specie quando il sangue scorre al quartiere Pilastro di Bologna in maniera scioccante: quelli della Uno Bianca affiancano un’auto con tre carabinieri. Sparano al conducente, mandandolo a sbattere su un cassonetto. I militari rispondono al fuoco, ma finiscono investiti da una gragnola di proiettili. I killer li finiscono con un colpo alla nuca. Pare impossibile.
Il clamoroso errore
La fantomatica “Falange Armata” rivendica l’attentato, ma pochi ci credono. Vengono mobilitati 500 uomini tra carabinieri, poliziotti e finanzieri che due anni più tardi riterranno di aver chiuso il caso dopo aver arrestato qualcosa come 191 persone tra cui i presunti killer dei tre carabinieri: la chiamano la “mafia del Pilastro”, responsabile di tutti gli episodi di violenza avvenuti. Ma si sbagliano di grosso: la Uno Bianca è ben lontana da lì. E soprattutto non si è mai fermata: 20 aprile 1991, durante una rapina a Borgo Panigale arriva l’ennesima vittima. Si chiama Claudio Bonfiglioli, 50 anni, benzinaio. E ancora, 2 maggio, due omicidi in un’armeria di Bologna: Licia Ansaloni e Pietro Capolungo. Il 19 giugno è la volta, a Cesena, di un altro benzinaio, Graziano Mirri. Due mesi più tardi perdono la vita due operai senegalesi e un terzo viene ferito: movente, razzismo. Il sangue si placa nel 1992, ma solo quello, perché le rapine continuano. Il 24 febbraio 1993 la banda uccide Massimiliano Valenti, appena 21 anni, testimone scomodo di una rapina, “giustiziato” e gettato in un fossato. Il 7 ottobre, a Riale, tocca a Carlo Poli, elettrauto. Nulla li ferma: nel 1994 nove rapine alle banche. Il 24 maggio dello stesso anno, uccidono il direttore della Cassa di Risparmio di Pesaro Ubaldo Paci mentre sta aprendo la filiale.
La svolta
Finché due poliziotti della Questura di Rimini si rendono conto che non è possibile che questa banda sfugga continuamente ai posti di blocco, abbia informazioni riservate per agire con azioni mirate e si muova come un gruppo esperto di militari da ormai 7 anni: non possono che essere dei colleghi. Hanno ragione: la banda della Uno Bianca è infatti stata fondata da Roberto Savi, poliziotto delle volanti della questura di Bologna, e da suo fratello Fabio, camionista. Con i due, le menti delle azioni, anche un terzo fratello poliziotto, Alberto Savi, in servizio a Rimini. E tre gregari minori, sempre poliziotti, tra cui uno dell’antidroga di Bologna, Marino Occhipinti, presente all’assalto al delitto Beccari per cui prenderà l’ergastolo. Anche i Savi, ovviamente, l’ergastolo. Occhipinti, dal gennaio 2012, è in semilibertà. Quando li arrestano, l’Italia va sotto choc: la carriera della banda in divisa si è conclusa con 103 crimini, 24 omicidi, 102 feriti. Per alcuni dietro la Uno Bianca ci furono ombre, qualcuno disse i servizi segreti o chissà che altro. Fabio Savi la chiuse a modo suo: «Dietro la Uno bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti».
Edoardo Montolli per Gqitalia.it