In queste settimane la “Musica nera” di Leonardo Gori torna a far echeggiare le sue note graffianti tra gli scaffali delle librerie, in una nuova versione che esalta meravigliosamente le qualità narrative del suo autore. Le personalità sfaccettate e perfettamente delineate dei protagonisti, i cambiamenti di un’Italia che cresce senza riuscire ad affrancarsi dai fantasmi del passato, la capacità onnipervasiva della musica: sono questi ingredienti, ben dosati e miscelati, a creare una storia avvincente e ammaliante come di rado se ne incontrano. “Musica nera” è un romanzo completo, che coniuga storie personali, temi civili e tanta, meravigliosa musica jazz, di cui lo scrittore fiorentino è profondo conoscitore. Siamo nel 1967, in Versilia. La Guerra Fredda è all’apice, ma in Italia si respira aria di benessere. Il colonnello dei carabinieri Bruno Arcieri, ormai in pensione dopo una vita trascorsa nei servizi segreti, torna in Versilia per assistere ai funerali di un vecchio amico, l’ammiraglio Fedele Argenti, ritrovato annegato in un canale. È stato davvero un incidente? L’indagine personale di Arcieri fa emergere il ricordo di antiche atrocità del tempo di guerra, le tracce di misteriosi segreti sepolti sul fondale del Tirreno e l’insidia di nuove trame. Riallaccerà, però, anche i fili di una struggente memoria personale nei luoghi della propria perduta giovinezza. Ad accompagnare il tutto, la tessitura musicale del jazz, che diviene colonna sonora e filo conduttore del romanzo fino a trasfondere la propria anima nel testo. Perfettamente amalgamato alle vicende narrate dai romanzi che lo hanno preceduto, di cui rappresenta una sorta di ponte tra vicende cronologicamente anteriori e posteriori (ricordiamo “Il ritorno del colonnello Arcieri”, “Non è tempo di morire” e la riedizione de “L’angelo del fango”, tutti pubblicati da Tea), “Musica nera” è anche uno splendido testo da fruire come opera singola e costituisce una grande prova di maturità stilistica ed espressiva di Leonardo Gori. Ne parliamo in esclusiva con lui: Partiamo dalla “Musica nera”: perché questo titolo e cosa rappresenta per te il jazz? Ho sempre cercato di inventare titoli che avessero più di un significato, come scatole cinesi. In questo caso il “nero” è ovviamente il colore della vicenda: credo sia una delle più amare di Bruno Arcieri, sia per l’argomento che per il senso di inevitabilità del male. Ma la musica che percorre il romanzo è anche quella del jazz primigenio di New Orleans, legata per sempre al carattere e all’estetica dei neri americani e poi diventata un linguaggio universale. Il jazz è per me – e per Bruno Arcieri – la colonna sonora della vita, la sua pulsazione piena di incertezza e di gioia, di malinconia. Colori ed emozioni che ho cercato di rendere anche imitando, con la scrittura, l’incedere sempre sorprendente del jazz. In questa “seconda vita” del colonnello Arcieri, assistiamo a un mutamento profondo del personaggio dopo il primo ciclo pubblicato con la Hobby & Work, che sembrava doversi concludere proprio con questo romanzo. Come è cambiato? E come si è trasformato il tuo modo di scrivere? Bruno Arcieri è rimasto… sospeso, alla fine di Musica Nera, per un buon numero di anni. Nel frattempo, il suo autore ha capito qualcosa di più, riguardo la possibilità di intercettare le emozioni e trasmetterle ai lettori. La mia attenzione è passata, dalla cura quasi esclusiva per la trama, all’esplorazione dei personaggi. E in tale indagine intima è stato naturalmente privilegiato Bruno Arcieri. Ho lasciato da parte le mie convinzioni precedenti sulla narrativa di tensione e ho imparato ad ascoltare quello che il mio personaggio seriale aveva da dirmi di sé. Una rivoluzione copernicana: adesso la “scaletta” di preparazione è diventata secondaria, pur rimanendo presente, e lascio che sia la scrittura stessa a sorprendermi. Questa trasformazione mi ha portato a non riconoscermi più nei “vecchi” romanzi di Arcieri, e così ho praticamente riscritto sia L’angelo del fango che Musica Nera. Operazione forse discutibile, ma che lascio giudicare ai lettori. Racconti molto bene l’Italia e la Versilia del 1967. Che cosa rappresenta per te quel periodo storico? Penso sia naturale tendere a mitizzare il periodo in cui si passa dall’infanzia all’adolescenza, e probabilmente questo è il motivo per cui gli anni Sessanta esercitano su di me, nato nel 1957 (ma non solo su di me…) un fascino irresistibile. Però è innegabile che sia stato un periodo realmente e radicalmente rivoluzionario: gli anni intorno al 1968 hanno profondamente cambiato il modo di vivere dei giovani e non solo di loro. La politica, anche nelle sue manifestazioni peggiori, è stata solo una delle componenti di quella trasformazione. La rivoluzione del ’68 è stata sociale, sessuale, musicale, solo per rammentarne gli aspetti essenziali. Le immagini di quel decennio, viste soprattutto sullo schermo azzurrino della televisione, hanno segnato la mia fantasia di ragazzino: la Luna, i Kennedy, Sharon Tate, i Beatles, Piazza Fontana… Com’è possibile non parlarne? Bruno Arcieri, in un certo senso, è il mio alter ego di quei tempi, all’estremo opposto della linea dell’età, ma ugualmente meravigliato. Quali avventure attendono Bruno Arcieri? E quali progetti sta coltivando il suo autore? Rilasciaci un’informativa riservatissima… Sto scrivendo il seguito (obbligato!) di Non è tempo di morire, che inizia dove termina quel romanzo. Arcieri saluta Bordelli che lo ha ospitato e se ne va, con la terribile borsa di pelle chiara. Dove? Bruno me lo sta raccontando. Ormai è anziano, va per i centoquindici, parla lentamente e con un filo di voce. Ci vorrà ancora un po’ di tempo. Ma dall’anno prossimo, se tutto va bene e se i lettori continueranno a interessarsi di questo atipico agente segreto, rivedremo le storie degli anni Trenta e Quaranta: Nero di Maggio, La finale, Il passaggio… Forse con qualche storia nuova, di mezzo. Daniele Cambiaso
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