Con la richiesta di applicare l’Articolo 50, si apriranno i negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Che cosa dobbiamo aspettarci? Di sicuro, molta ansia
Stiamo ormai contando i giorni: presto Theresa May, che riesca o meno a scompigliare l’opposizione della Camera dei Lord, premerà il grilletto della Brexit, e la pallottola si precipiterà verso il cuore dell’Ue. Ma quale cammino porterà all’effettiva disunione del Regno Unito dall’Unione Europea?
Un calvario. Secondo la tabella prevista dall’Articolo 50 del Trattato di Lisbona, la Gran Bretagna sarà fuori dalla metà del 2019, che si sia o meno raggiunto un accordo fra le parti sulle modalità concrete del divorzio. Il Trattato prevede che i negoziati possano continuare anche oltre la scadenza, ma ci vuole l’assenso unanime di tutti gli Stati coinvolti e non sarà facile ottenerlo se le divergenze saranno state aspre.
I negoziati si apriranno in una situazione di disparità nel potere contrattuale. C’è una deadline, e se alla scadenza non ci sarà stato un accordo, sarà il caos o poco meno; e da questo caos la Gran Bretagna sarebbe colpita più dell’Unione Europea. Le trattative dovranno anche spianare la via ai futuri rapporti fra i due Paesi: niente di più, cioè niente accordi precisi, ma sì la prefigurazione di un avvenire di scambi commerciali che conviene a entrambi siano il più liberi possibile – con l’accento, peraltro, che batte sulla parola “possibile”. Una parte dei negoziatori dovrà quindi essere pronta a discutere di commercio.
Il problema di Londra è quello di non avere personale capace di gestire negoziati commerciali: i britannici che nei decenni scorsi hanno accumulato dell’esperienza in questo campo l’hanno fatto lavorando per la Ue, che da decenni ha l’incarico di negoziare per l’intera Unione. Non si ha ancora notizia che la May, e il suo scatico triumvirato di brexittieri cui sono affidati i rapporti con l’estero, abbiano cercato di strappare al loro datore di lavoro questi preziosi negoziatori a suon di superstipendi. Al contrario, la ricerca di personale ha finora avuto luogo con offerte – in termini di remunerazione – piuttosto basse, per non dire risibili.
Dal punto di vista dell’Unione Europea, i possibili problemi risedono nell’eventualità di serie divergenze tra i Paesi membri. Finora, però, i Ventisette hanno mantenuto una notevole unità nei confronti di Londra, aiutati in questo da un’opinione pubblica in cui il vento antieuropeo si è molto abbassato.
I negoziati dovranno dare sistemazione a tutte le pendenze fra le due parti (come ho detto, non ai rapporti futuri, che potranno essere l’oggetto di un successivo accordo commerciale e altri trattati. La distinzione è importante). Se non si troverà un’intesa, o se la bozza di accordo sarà respinta dai parlamenti di Strasburgo e Westminster, l’uscita avverrà lo stesso e le conseguenze saranno caotiche. È la cosiddetta “Brexit dura” e non si può escludere che si avveri; al momento sembra, anzi, una delle conclusioni più probabili.
Concretamente, i negoziati dovranno esaminare una serie di leggi e regole europee e in ciascuna di esse regolare la posizione della Gran Bretagna. Il numero di queste tali norme è molto alto, sono 20.833. Per affrontarle sono a disposizione circa 500 giorni lavorativi. Ogni giorno sarà dunque necessario completare la revisione di una quarantina di norme. Per valutare il significato di questo, basta ricordare che all’Ue, in genere, approvare una singola legge richiede qualche mese.
Bisogna poi tener conto che i due anni accordati dal Trattato non sono realmente tutti a disposizione, perché ci sono diversi tempi tecnici di cui bisogna tenere il dovuto conto. All’attivazione dell’Art. 50 i Ventisette dovranno riunirsi per definire le linee direttrici della trattativa. A partire da queste la Commissione elaborerà una sua posizione, che dovrà essere approvata dal Consiglio europeo. Ciò vuol dire che i primi negoziati avverranno all’inizio di giugno.
Di quel momento in poi ci saranno diciassette mesi per le trattative. Per la fine di ottobre del 2018 ci dovrà essere una bozza definitiva di accordo, che andrà ai governi dei Paesi membri per valutare l’intesa finale. I governi dovranno dire di sì entro dicembre, in modo da dare il via al dibattito nel Parlamento di Strasburgo e in quello di Westminster per la fine del gennaio successivo. Ciò dovrebbe consentire al Parlamento europeo di votare entro la fine di marzo del 2018. Il Parlamento britannico dovrebbe rispettare la medesima scadenza.
In ciascuno di questi passaggi il disaccordo potrebbe ritardare il processo e rendere inevitabile o una Brexit dura (cioè il caos) oppure un supplemento di negoziati. Questa seconda eventualità però è improbabile, perché ciascuno dei Ventisette ha un diritto di veto e alcuni potrebbero avere i loro signori motivi per negare l’unanimità. Londra potrebbe esser costretta a comprare l’assenso di alcuni Stati a caro prezzo.
Il clima dei negoziati rappresenta un problema a sé. All’inizio delle trattative l’Ue intende presentare alla Gran Bretagna il conto residuo dei progetti cui questa partecipa e che non sono ancora finanziati per intero, oltre a una richiesta di pagare la sua parte degli impegni verso dipendenti Ue e pensionati di nazionalità britannica. In Gran Bretagna, il pensiero di dover mantenere la parola data scucendo dei soldi ha alzato un’ondata di indignazione. Ma ai contribuenti europei non piace l’idea di dover pagare la pensione a Nigel Farage e alla pattuglia dei deputati europei dell’Ukip. Se Theresa May si opponesse ad un accordo al riguardo, ogni passo successivo diverrebbe più difficile.
I racconti più avventurosi dei più Grandi Autori di sempre tradotti da Paolo Brera: