Indovinello: Che cos’è quella cosa che sta a Vienna e taglia ma non cuce? La risposta, se avete meno di trent’anni, è sicuramente problematica. Magari non l’avete mai neanche sentita nominare. Eppure la scorsa settimana l’Opec – la sigla inglese sta per “Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio” – ha battuto un grosso colpo, decidendo di limitare le vendite di greggio.
Insomma, dev’essere scoccata una qualche metaforica mezzanotte e il vampiro del petrolio si è svegliato. E i mercati hanno incassato un taglio alla produzione. Del 4.5%. È tanto, è poco? Per il presidente dell’Opec, il qatarino Mohammed Ben Saleh Al-Sada, è «una decisione storica».
Mah! Il problema è se i tagli saranno davvero osservati, o se invece i Paesi del cartello faranno i furbi, rompendo il fronte per portare a casa qualche soldo in più. Nel corso dell’anno passato, i Paesi produttori non erano riusciti a muoversi di concerto neanche di fronte all’erosione del prezzo del barile fin sotto i 40 dollari, contro i 115 dell’estate 2014. Il principale motivo era che i sauditi pompavano come matti, perché volevano tener bassi i prezzi per tagliare le gambe ai produttori americani di petrolio da scisti, che ha costi di estrazione molto più alti. Il calcolo di Riyadh era che una volta falliti quelli, la situazione rispettiva della domanda e dell’offerta avrebbe fatto risalire i prezzi, ma pochi si sarebbero sentiti invogliati a ributtarsi negli scisti con la prospettiva di andare in rovina quando fosse arrivato un nuovo round di ribassi.
Il calcolo dei sauditi si è però rivelato errato. L’economia degli scisti è cambiata, i costi si sono abbassati e Riyadh, alle prese con inediti, enormi problemi di bilancio pubblico, ha ceduto per prima ed è tornata a volere prezzi più alti. Anche l’Iran ha cambiato idea, mentre la Russia si è accostata all’Opec. Ciò ha reso possibile l’accordo.
Già il terzo giorno dopo l’accordo Opec sui tagli i mercati, che a caldo avevano reagito con un aumento dei prezzi, si sono presi un po’ di respiro. La Russia e l’Iran, ma anche il Venezuela in cui infuria la crisi, sono fortemente indiziati di non essere, diciamo così, “anelli forti” del fronte unito.
Fra i Paesi importatori, la nuova ortodossia dice che qualsiasi cosa spinga l’inflazione è manna del Paradiso, come se dover pagare di più un import indispensabile non fosse mai un problema. Dal punto di vista dell’intera umanità, certo, prezzi alti per risorse non rinnovabili ne limitano il consumo e possono dare il tempo di passare a fonti alternative, si spera rinnovabili.
Gli effetti meno immediati di questo nuovo divincolìo dell’Opec non sono scontati. L’aumento dei prezzi, se si consolidasse, potrebbe anchilosare la ripresa, ma un po’ più di inflazione potrebbe far salire i tassi d’interesse e dare un po’ di respiro alle banche, che oggi riescono a guadagnare solo sui derivati, che sono nitroglicerina finanziaria. Ne segue che il mercato dovrà certamente essere seguito con maggiore attenzione – perché le notizie che riguardano il petrolio hanno cessato di essere non-notizie.
Paolo Brera
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