È bastato che la premier Theresa May fissasse una data di massima per notificare all’Ue l’uscita in base all’articolo 50, perché il cambio della moneta britannica annullasse il suo parziale recupero di settembre e ricominciasse a scendere precipitosamente.
Dopo il congresso dei conservatori a Birmingham, per tutta la settimana la sterlina ha perso terreno nei confronti delle principali valute. In particolare, contro l’euro, rispetto al quale dal 23 giugno è scesa già di oltre il 20%, cioè il doppio di quanto era stato previsto come effetto del voto. Che cosa pensano i mercati finanziari della Brexit, a questo punto, è da considerarsi un dato acquisito: peste e corna.
Di per sé, una valuta debole non è un disastro, si chiami sterlina, quetzal o conchiglia Kauri. Nell’immediato incoraggia le esportazioni, sulla base della capacità produttiva esistente. Però anche in un primo momento ha almeno uns conseguenza negativa, deprime la bilancia dei pagamenti per l’effetto a J, e allo stesso tempo ne rende più difficile il finanziamento.
Sono gli effetti più a lunga scadenza, ad ogni modo, a presentare i maggiori elementi di rischio. La Gran Bretagna è un importatore obbligato di numerosi beni, come gli alimenti e l’energia: quale che sia il loro prezzo, è costretta ad acquistarli all’estero. Una moneta debole trasmette dunque impulsi inflazionistici. È vero che l’inflazione da almeno un decennio è un problema solo perché non ce n’è abbastanza, e un 2% annuo di aumento dei prezzi olia gli ingranaggi del sistema economico e produce più crescita. Ma con una svalutazione del 20%, i prezzi non si fermeranno al 2%.
Neanche i tassi d’interesse potranno fermarsi ai livelli rasoterra in cui sono sistemati adesso. Nelle condizioni della Gran Bretagna, il prevedibile aumento dei tassi gioca a favore dei pensionati, il cui reddito dipende in larga misura dagli stock di titoli dei fondi pensione. Però l’effetto di scoraggiare gli investimenti non scompare, e alla lunga sarà quello prevalente.
Peggio ancora, l’indebolimento della sterlina renderà più difficile il finanziamento del deficit della bilancia dei pagamenti. Un investitore che redige i suoi bilanci in euro, dollari o yen nel 2016 porterà a casa una perdita del 10-20% sui suoi investimenti in sterline. Nel 2017 dunque non potrà mostrare un grande entusiasmo all’idea di andare lungo sui titoli in sterline. Questo renderà necessario un aumento dei tassi di interesse molto più sensibile. Cosa che non augura bene per l’economia britannica.
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