L’estate 2016 è tutt’altro che finita, per la Spagna: gli albergatori si aspettano ancora un buon afflusso di turisti in settembre e le temperature ancora superano qua e là i quaranta gradi. Eppure sulla politica di Madrid già incombe l’ombra del Natale: l’investitura come primo ministro di Mariano Rajoy – leader del Partido Popular (PP) vincitore delle elezioni – è stata appena bocciata dal Parlamento. Se non si riesce a trovare una soluzione di governo entro il 31 ottobre, scatterà per legge lo scioglimento delle Camere che porterà alla terza tornata elettorale in un anno… secondo le regole dopo cinquantaquattro giorni, esattamente il 25 dicembre.
La Spagna è imprigionata in questo labirinto da dopo le elezioni del 20 dicembre 2015, in cui si sono registrati una vittoria di stretta misura del primo ministro in carica – Mariano Rajoy, rappresentante della destra – una cospicua discesa dei socialisti del PSOE e un notevole incremento di due nuovi partiti: Ciudadanos, di centro-destra, critico nei confronti del Partido Popular; e Podemos, più a sinistra del PSOE. In sostanza, alla fine del 2015 la Spagna si è divisa in due: un fronte conservatore che ha dato la maggioranza relativa a Rajoy e un fronte molto più numeroso che si oppone invece al PP in generale e a Rajoy in particolare. Ma, in questo fronte, le agende erano e sono tuttora molto diverse.
Ciudadanos, il quarto partito, denuncia la corruzione ormai dilagante fino alle alte sfere del PP: anche se, personalmente, Rajoy non è accusato di nulla, viene biasimato per non avere fatto pulizia tra le proprie schiere. Podemos, il terzo partito (figlio dei cosiddetti indignados), simpatizza apertamente per i movimenti indipendentisti e in particolare i catalanisti, che premono da tempo per un referendum separatista; solo poco più di metà dei catalani è a favore, ma si è visto con la Brexit che è sufficiente a prendere decisioni irrevocabili.
Il secondo partito, il PSOE, è stato indebolito dallo spostamento dei voti verso Podemos, più di quanto sia accaduto al PP con il suo nuovo rivale Ciudadanos. Se Rajoy all’inizio del 2016 arrivava addirittura a rifiutare la candidatura a primo ministro, conscio di non avere l’appoggio necessario, la situazione non era facile nemmeno per il leader socialista Pedro Sanchez: quando in marzo è toccato lui a cercare di formare un governo. Per avere voti sufficienti in Parlamento, il PSOE doveva tentare alleanze a destra con Ciudadanos, partner ragionevole ma non del tutto compatibile, e con Podemos, più vicino sotto certi aspetti ma lontanissimo sotto certi altri, in particolare la questione indipendentista, su cui i socialisti non transigono. Di conseguenza, anche Sanchez non è riuscito nel suo intento. Pertanto la Spagna è tornata alle urne il 26 giugno 2016. E la situazione si è fatta ancora più complessa.
Il timore della deriva indipendentista appoggiata da Podemos – che nel frattempo si è alleato con la storica formazione di sinistra Izquierda Unida, dando vita a Unidos Podemos – e della possibilità che il PSOE, per formare un governo, facesse concessioni inaccettabili per molti spagnoli, ha fatto perdere voti tanto a Podemos (che non è riuscito a diventare il secondo partito, come invece sperava grazie all’apporto di Izquierda Unida) quanto a Ciudadanos quanto ai socialisti. Il PP di Rajoy ne è uscito però solo moderatamente rafforzato: più voti, più deputati, ma non la maggioranza assoluta.
Nondimeno l’indiscutibile vittoria dei Popolari richiedeva che il capo dello Stato, re Felipe VI, affidasse l’incarico a Rajoy. Ma questi è riuscito a guadagnare solo i sì di Ciudadanos (previo accordo su una lunga serie di condizioni, molte delle quali riguardanti la lotta alla corruzione) e dei pochi rappresentanti di Coalición Canaria (con la promessa di dare rilievo alle esigenze delle Isole Canarie): in totale 170 voti, contro i 180 no compatti di tutti gli altri gruppi parlamentari: il PSOE avrebbe potuto astenersi, garantendo l’investitura di Rajoy, ma Sanchez ha continuato a sostenere che gli elettori socialisti non vogliono il leader del PP come presidente del Consiglio.
E ora, intanto che Rajoy – tuttora primo ministro ad interim – è al G20 in Cina, la Spagna si interroga su cosa accadrà dopo quasi nove mesi senza un nuovo governo, una situazione mai verificatasi nella sua storia. Ci sono due incognite: le elezioni del 25 settembre in due regioni autonome, Paesi Baschi e Galizia, che potrebbero dare nuove indicazioni. E sussistono due alternative: se Rajoy rinunciasse alla sua candidatura e il PP proponesse un altro nome forse sarebbe più facile trovare un accordo, ma forte del suo successo elettorale il leader conferma che il candidato può essere solo lui e nessun altro; oppure Sanchez potrebbe ricevere un secondo mandao, che tuttavia, a meno di concessioni a Podemos e agli indipendentisti, non troverebbe a sua volta sostegno sufficiente in Parlamento. Lo stesso ex-presidente del Consiglio socialista Zapatero invita il PSOE al dialogo.
Mentre l’occupazione rallenta la propria crescita e si avvicina la scadenza di impegni presi con l’Europa, la Spagna si domanda se sarà necessario andare alle urne per la terza volta in un anno, con i costi che ciò suppone e il rischio di ritrovarsi nel 2017 in una situazione ancora più ingarbugliata. Anche perché la data in cui dovrebbero cadere le elezioni, a meno di qualche modifica tempestiva alle regole per anticiparle al 18 dicembre, è proprio il giorno di Natale, cosa che potrebbe aumentare ulteriormente l’astensione. Nessuno dice di volere le elezioni, ma finora non sembra possibile evitarle.
(Testo e foto di Andrea Carlo Cappi)