C’è uno scrittore tedesco del 700 di letteratura fantastica, molto originale e moderno, che rappresenta la mia croce e delizia.
Si tratta di Ernst Theodor Hoffman, autore di storie immaginifiche e affascinanti, prive tuttavia di un rigoroso filo logico, che non si preoccupano di rispettare le normali coordinate spazio-temporali della narrazione.
Sfido chiunque a leggere il romanzo più famoso di Hoffman, Gli Elisir del Diavolo, e capirci qualcosa.
Naturalmente lo scrittore tedesco vuole esprimere una profonda visione artistico/filosofica ( la realtà è molto più sbagliata e inautentica di ciò che la libera fantasia del narratore immagina) ma serve come esempio della reazione che suscitano in me film, come The signal, che puntano tutto sulla suggestione e sulla spettacolarità delle immagini, disinteressandosi della coerenza della storia: una piacevole fascinazione unita a un profondo fastidio.
Questa volta il fastidio prevale.
La pellicola firmata dal regista statunitense, conosciuto fino ad oggi soprattutto come pregevole “direttore della fotografia”, incomincia come una commedia sentimentale in agrodolce, che tratteggia i rapporti sentimentali e affettivi di un anomalo terzetto di amici, di cui uno gravemente disabile, poi parte per la tangente, trasformandosi in una caleidoscopica e piuttosto sconclusionata avventura che ha per sfondo l’enigmatica quanto abusatissima Area 51 nel deserto del Nevada, dove si nasconderebbe il segreto di un contatto tra la civiltà umana e quelle extraterrestri.
Gli effetti speciali, alcuni notevoli, si sprecano, senza preoccuparsi di lasciar dietro molti interrogativi sul senso e la coerenza di quello che sta accadendo.
Qualcuno dirà che, trattandosi di un film di fantascienza, questo è del tutto giustificabile; in realtà, è vero l’esatto contrario. Il cinema fantascientifico, come anche la narrativa dello stesso genere, proprio perché ci sbalzano in mondi del tutto slegati dall’esperienza comune hanno il dovere di mantenere un’ossatura logica.
Confezionare una storia fantascientifica aperta, che alla fine non sia in grado di riannodare tutti i fili, come avviene in The signal, lascia lo spettatore insoddisfatto, anche se gli fa trascorrere un’ora buona fra serrate e mirabolanti trovate visive.
Rino Casazza
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