A Milano è in corso una mostra di Maurits Cornelis Escher, il pittore olandese del secolo scorso (tra parentesi, si pronuncia “Es-kher”, non “Esher”, appunto perché è olandese, non tedesco). La mostra ha pochi quadri originali, e questo è un limite, ma è molto ben allestita e ha veramente l’effetto di insegnare qualcosa sulla pittura di Escher: le tecniche, le riflessioni.
Resta fuori quello che in Escher ha scoperto Douglas Hofstadter: il paradosso. (Hostadter è l’autore del libro “Escher, Gödel, Bach”, per il quale anche lui, come suo padre, meriterebbe il Premio Nobel.) La mostra non ci riflette sopra, ma il materiale che presenta permette comunque di capirci qualcosa di più
Escher costruisce edifici che a prima vista appaiono normali. Sono come le costruzioni dei paranoici, che hanno un alto grado di plausibilità. In queste costruzioni i dettagli sono scene anch’esse normali: un uomo sale le scale, o tiene in mano una specie di cubo; dell’acqua scorre in un canale e forma una cascata. Ma se si seguono queste piccole scene con lo sguardo, si scopre che l’uomo, salendo le scale, arriva al punto da cui comincia a salire; che l’acqua scorsa giù nella cascata scorre giù per un canale il cui tracciato finisce sull’alto della cascata; che il cubo che l’uomo tiene in mano non è possibile nello spazio vero e proprio. Insomma, dettagli normali si compongono a creare una scena complessiva che da lontano sembra normale ma in realtà è impossibile e assurda.
Ci sono altri aspetti dell’opera di Escher che non mi pare possano definirsi paradossi, ma comunque indicano qualcosa che ci colpisce, come un koan. Io sono rimasto impressionato dall’aspetto paradossale. È come un canone che non scende mai, come un’ingiunzione paradossale alla Watzlawick. Se potete, andate a vedere la mostra. Merita.
Paolo Brera