Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Noia! Ché la capacità di provare noia è uno dei grandi marchi impressi su di noi dall’evoluzione. Ogni specie animale si intrufola in un ambiente, delle cui risorse poi si appropria secondo le modalità caratteristiche della specie stessa.
Giorno dopo giorno, millennio dopo millennio, gli individui della specie si mantengono in vita mediante l’incessante replica dei medesimi atti. Solo un numero non troppo grande di individui trova insopportabile la routine e salpa per nuovi lidi. Se poi l’audace innovatore non muore, segno è che al di là dei limiti abituali della specie si trovavano nuovi e fertili territori, risorse impensate, tecniche inedite per procacciarsi il cibo quotidiano. Senza la noia, e dunque senza lo spirito di avventura che nasce per fuggirla, nulla di tutto ciò sarebbe venuto alla luce.
L’avventura è pericolosa. Chiaro che mica sempre si risolve con piena soddisfazione di tutti: chi vive pericolosamente, muore frequentemente. Chi mangia bizzarramente, vive sovente indigeribilissimebilmente. Ma chi sopporta a oltranza la noia, non crediate che riesca poi necessariamente a farsela bene, o anche solo a sopravvivere! Gli ambienti si evolvono, talora anche in modo disastroso per gli organismi che li abitano. Per la maggior parte del tempo, Daisyworld è un pianeta assai inospitale per una o l’altra delle due varietà di margherite che ci vivono .
Allo stesso modo il ciclo erbivori-predatori porta alquanto vicini all’estinzione, in fasi diverse, entrambi i gruppi di animali, e comunque assoggetta volta a volta i primi a una vita angosciosa e i secondi all’esperienza della fame, e lo sa Knut Hamsun che cosa questo non voglia dire! Insomma, abitudine e spirito di avventura, soddisfazione per l’esistente e noia sono aspetti polari, ciascuno dei quali può arrecare a individui e specie guai inenarrabili ma anche condurli alla salvezza.
Debitamente lodata la noia, sia encomiato anche chi la allevia. Vi sono filoni, nella creazione letteraria e cinematografica, che combattono il tedio spingendo lo sguardo al di là non solo dei limiti usuali dei singoli individui (questo lo fa praticamente tutta la letteratura), ma addirittura al di là di quelli caratteristici della condizione umana così come la conosciamo oggi. L’essere umano è intrinsecamente finito: perciò l’autore è benemerito se gli usa il servigio di mostrargli qualcosa che trascende i suoi vincoli. Così è stato ab initio e così sarà in saecula saeculorum; posto che secoli e non mere dècadi abbia ancora a durare la specie umana.
Questi importuni limiti sono innanzitutto temporali. Ricordati, fratello, che devi morire: così bussavano di notte nei conventi, né trascuravano alcuna cella. Ma sin da quando la sua vicenda fu affidata ai segni cuneiformi Gilgamesh è immortale, al pari dei più tardivi e non meno rissosi iddii del Pantheon omerico. E immortale, a ben vedere, dev’essere anche James Bond, uso a sgattaiolar via da lottatori di sumo, tiratori scelti ed esplosioni nucleari senza mai rimetterci neppure un dente del giudizio.
Non trascuriamo nemmeno i limiti spaziali. Gargantua e Margutte li superano in estensione, Tuliphäntchen e Pollicino in piccolezza, e quanto alla posizione geografica, la creazione fantastica ci può accompagnare in qualunque luogo della Terra, anzi dell’intero Universo, anzi perfino in posti che non esistono né mai esisteranno, da Mid Earth a Dite, da Orsinia ai Monti Rifei pullulanti d’ippogrifi. In tutto lo spazio, e per soprammercato in tutti i tempi.
Un altro ordine di limiti? Sono quelli fisici. Però Aiace Telamonio solleva massi «che non riuscirebbero ad alzare dieci degli uomini di oggi», Apuleio diviene asino, e il mite, noncurante-dell’afa Clark Kent nasconde sotto giacca e camicia la calzamaglia di Superman.
Il cinema e la letteratura rappresentano in definitiva un modo per allucinare proficuamente l’avventura: ne sentiamo il bisogno così come il lattante, a qualche mese di età, trova utile per il suo sviluppo intellettuale allucinare la poppata prima di mettersi a strillare per avere il latte vero e proprio.
Il giallo, il romanzo d’avventure, il film di spionaggio pongono a contatto il lettore o lo spettatore con eventi poco frequenti, ma comunque possibili. Nei film western sono deceduti milioni e milioni di pistoleri, nella realtà poche decine o poche centinaia, ma non vi è nulla di assurdo in queste morti violente, se ne togli la loro inconsueta frequenza. Lo stesso avviene nei romanzi rosa: gli amori descritti sono ben improbabili, ma – in quanto estremizzazioni degli amori che incontriamo a ogni angolo di strada – non li puoi definire impossibili.
In verità, qualche elemento straordinario si incontra in tutta la narrativa, in tutto il teatro, in tutto il cinema. Se è vera gloria, pressoché sempre lo straordinario serve a meglio illuminare ciò che è ordinario, normale, addirittura banale. Monsù Travet e Fantozzi, con le loro avventure non comuni, svelano la piccola borghesia. Micromega e l’antropologo iraniano delle Lettres Persanes, così come i morti di Our Town di Thornton Wilder, servono a spiegare la Francia del secolo XVIII, o vari aspetti della condizione umana.
Si capisce che quando lo straordinario è a tal punto fuori dell’ordinario da essere bel et bien impossibile, la luce che getta sulla realtà quotidiana può rivelarne le tinte più forti. Sauron e gli hobbit mettono in scena la lotta fra il Bene e il Male che si svolge ogni giorno dentro e fuori delle coscienze individuali: però nel libro di Tolkien è chiara e clamorosa, nelle coscienze è tacita e a volte opinabile; Frankenstein illustra la realtà veramente tragica per cui le conseguenze delle nostre azioni non ci appartengono più, come ogni bambino deve imparare alla sua prima indigestione di prugne.
Fantasy e horror, due generi popolari, aboliscono i limiti posti dalle leggi fisiche. La science fiction, il più nobile dei generi fantastici, nasce invece sul terreno della fascinazione operata sui moderni dalla tecnologia. Di togliere di mezzo le leggi fisiche non si parla affatto: si deve anzi rispettare l’essenza della tecnologia, che è di assecondare le leggi naturali per asservirle a umani scopi, e non certo di mirare a violarle.
Una delle caratteristiche distintive della fantascienza è infatti l’abolizione selettiva di questo o quel limite della scienza e della tecnologia attuali, ovviamente sempre nell’immaginazione. La buona fantascienza, come e più della letteratura realista, è in grado di servirsi di questa abolizione per illuminare ciò che nell’essere umano non varia, a dispetto di tutti i mutamenti interiori ed esteriori. Questo può essere raggiunto, a volte, anche senza modificare il ventaglio delle tecnologie che si immaginano disponibili: 1984, ad esempio, non introduce nel quadro niente che già non esistesse al tempo in cui Orwell lo scrisse.
Il fascino della tecnologia è facile da spiegare. Nell’ultimo secolo, la trasformazione delle condizioni di vita e della stessa condizione umana operata dall’evoluzione tecnologica è stata assolutamente senza precedenti. Il mutamento è stato profondo già nel breve arco di un’esistenza umana: aspetti essenziali della vita sono oggi completamente differenti da com’erano cinquanta o anche solo trenta anni fa.
Due esempi, uno in fatto di trasporti, l’altro di comunicazioni. La mobilità personale si è moltiplicata per venti o trenta volte, rendendo immediata la conoscenza di altre regioni e diffusa quella di altre nazioni e perfino delle plaghe più remote della Terra. Questa maggiore esperienza diretta della diversità si combina con una crescente aspettativa di uniformità: è divenuto banale, infatti, attendersi da un capo all’altro del mondo gli stessi cibi macdonaldosi, la stessa musica, lo stesso abbigliamento e le stesse modalità di relazione, che in larga parte rispondono a bisogni espressi da una platea internazionale di turisti la cui composizione varia relativamente poco.
La propagazione degli elementi culturali è del resto, grazie alla televisione e ancor più a Internet, incredibilmente più rapida di un tempo. Al piccolo schermo e al monitor hanno comunque finito per essere sacrificate l’infanzia e la vecchiaia quali le conoscevamo un tempo: i bambini hanno accesso a informazioni in anni passati tenute accuratamente nascoste, gli anziani non escono quasi più di casa, perlomeno nelle grandi metropoli. Internet ha ulteriormente accentuato la profondità della trasformazione, anche se rispetto alla televisione ha una diffusione meno facile e immediata.
Mi guardo bene dall’esprimere un giudizio negativo su quanto è avvenuto: lascerebbe il tempo che trova: mi preme solo constatare un’evoluzione dalla quale non sembra esservi ritorno. Un italiano dell’età giolittiana non capirebbe le nostre giornate più di quanto noi riusciamo a comprendere quelle dei tuareg. Con la fantascienza tuttavia possiamo proiettarci nei panni dell’italiano, o in generale dell’uomo, di un futuro più o meno prossimo.
Si può fare qualche esempio. È stato possibile (è roba di quest’ultimo anno) estrarre il Dna di insetti rimasti per milioni d’anni incapsulati in una goccia di ambra. E se a partire da un simile Dna fossile si riuscissero a ricostruire i dinosauri?
Eccovi Jurassic Park; e state sicuri che se la ricostruzione fosse fattibile, di parchi a base di dinosauri ne sorgerebbe uno accanto a ciascuna Disneyland e gli animalisti farebbero cortei nei pressi delle gabbie dei Tyrannosaurus Rex, ma non troppo vicino. È ormai nota l’analogia fra la nostra personalità e i nostri ricordi da una parte, e dall’altra il software e i file utilizzati da un computer: e se fosse possibile caricare un software in una mente umana? A voi Atto di forza! I computer diventano sempre più interattivi? Ecco che un Gibson si dà all’esplorazione della realtà virtuale che al limite ne risulta, un “ciberspazio” dove si giocano partite i cui risultati, come in Matrix, finiscono per traboccare nel mondo reale. Posto che noi sappiamo in che davvero consista, la realtà.
Impostato il discorso in questo modo, scopriamo che la letteratura fantastica, oggi ridotta a un genere popolare, non è mai stata disdegnata dai grandi scrittori: da Balzac (La pelle di zigrino) a Bulgakov (Uova fatali, per citare un racconto di schietta fantascienza), da Huxley (Brave New World) a Simone de Beauvoir (Tous les hommes sont mortels), e ancora da Calvino a Vonnegut, a Günther Grass, ad Isaac Bashevis Singer.
Per questi autori la creazione fantastica aiuta a esprimere meglio il reale. Col distruggere alcuni limiti, si getta una luce più penetrante su quelli che in ogni modo permangono, in quanto definiscono, nel loro complesso, lo status di uomo. La scienza e la tecnologia sono tutte bubbole: l’imperativo non è cambiato: è sempre e solo «Γνῶθι σ’ αυτόν», conosci te stesso. E una volta esplorato questo sterminato soggetto d’indagine, beninteso, vediamo anche di farcelo piacere: già che cambiarlo, nella sua essenza più intima, proprio non si può.