È noto che negli ultimi dieci/quindici anni si sono affacciati alla ribalta parecchi talentuosi autori italiani di fantascienza , alcuni premiati anche con successi di vendite ragguardevoli (primo fra tutti Valerio Evangelisti con la sua saga dedicata all’inquisitore Eimerich e, da ultimo, Dario Tonani con il ciclo di Mondo 9).
Tuttavia, anche perché il genere, pur sempreverde, è meno praticato nel mondo per l’emergere di nuovi filoni fantascientifici, non ci sono molti esempi di autori italiani che si siano cimentati validamente nella fantascienza c.d. classica, quella, tanto per intenderci, che partendo da rigorose premesse scientifiche, immagina scenari futuri fantasiosi ma tecnologicamente plausibili.
Val la pena di sottolineare che la fantascienza classica, altrimenti detta “hard science-fiction”, è quella che ha dato il nome al genere, visto che science-fiction significa, letteralmente, narrativa a base scientifica.
Luca Poggi è un autore semisconosciuto, che ho scoperto quasi per caso, ma i suoi due romanzi di cui parlerò di seguito, “Fuga dallo Sparviero” del 2011, e “Mens” del 2012, entrambi editi da 0111 Edizioni, sono meritevoli di menzione.
Incominciamo dal primo, “Fuga dallo Sparviero”.
Questo romanzo può essere accostato al capolavoro di Arthur Clarke “Incontro con Rama”, e non solo perché Luca Poggi, come lo scrittore inglese, è ingegnere, dettaglio peraltro non trascurabile.
Accomuna i due libri, infatti, il tema di fondo, o meglio la cornice scientifico-tecnologica: un mondo a bassa gravità, che nel testo di Clarke è un U.F.O. che all’improvviso compare nel sistema solare, mentre in quello di Poggi un grande satellite artificiale della Terra, chiamato appunto Sparviero.
In realtà i satelliti nel romanzo sono due. Orbita intorno alla Terra anche un gemello di nome Falcone, ma la storia si svolge in prevalenza sul primo.
Non sfuggirà che il romanzo di Poggi, uscito nel 2011, anticipa la situazione del colossal hollywoodiamo “Elisium”, ambientato in una gigantesca, terraformata stazione orbitale.
L’accuratezza di Poggi nel descrivere gli effetti della bassa gravità rivaleggia con quella dell’autore di Minehead, e anzi per certi versi la supera per le maggiori dimensioni e complessità del suo satellite rispetto all’astronave aliena Rama.
Il romanzo ha una partenza da racconto brillante, in cui la fa da padrone la personalità simpatica del protagonista, abile nell’arrangiarsi un po’ alla napoletana tra i molti problemi del suo mestiere di autista di scuolabus in servizio di linea tra Falcone e Sparviero. I costumi e l’organizzazione sociale di questi ultimi, al netto delle particolarità gravitazionali, sembrano simili, in un gioco di rimandi semiseri, a quelli della nostra vita quotidiana.
Poi la storia prende, per dir così, la doppia piega del thriller d’azione e della denuncia sociologico-morale.
Nat si trova all’improvviso al centro di una caccia all’uomo da parte della polizia satellitare e di forze malavitose o supposte tali. Così è costretto a mettere in campo tutte le risorse per sfuggire alla cattura e alla presumibile eliminazione, riuscendovi un po’ grazie alla prontezza di spirito un pograzie alla buona sorte.
Memorabile è la resa dei molti inseguimenti tra automezzi e uomini che avvengono nelle diverse parti dello Sparviero, e che aggiungono alla normale vivacità le complicazioni della gravità allentata in differenti misure.
Man mano che le peripezie del braccato vanno avanti, si insinua in lui il sospetto che dietro il tran tran della vita sui satelliti, e di conseguenza sul pianeta madre, si nasconda una sostanza diversa, a cui lui, assorbito dai problemi personali, non aveva badato.
E diventa decisivo il rapporto con gli “emigrati” extraterrestri, i venegiani, esseri ambigui e apparentemente asettici, con i quali sembrerebbero esistere, anche da parte del tollerante Nat, solo “normali” problemi di integrazione.
Il finale apre l’orizzonte della storia. La salvezza di Nat diventa, nell’incredulità dello stesso protagonista, il mezzo per una salvezza più generale e il racconto si trasforma in un apologo agrodolce sulle degenerazioni della società umana e sull’importanza della fratellanza universale.
Il tutto senza perdere ritmo e mantenendo il brio che le conferisce il tono scanzonato della voce narrante, Nat appunto, la cui genuinità e generosità ( complice anche un inevitabile risvolto “rosa”) ne fanno un eroe, o forse antieroe, improbabile ma all’altezza.
Per parlare del secondo romanzo, “Mens” , bisogna partire dalla sua classificazione nell’ambito della fantascienza.
Sulla copertina sta scritto “cyberpunk” e, a rigore, non ci sarebbe niente da dire: il protagonista è un cyborg, per giunta nella forma estrema, ovvero cervello umano impiantato in una macchina d’aspetto umanoide.
Ma basta addentrarsi nei primi capitoli per capire che si tratta di fantascienza classica, filone robotica. Il protagonista è tutti gli effetti un robot di ascendenza asimooviana. Con una precisazione : le macchine simil-umane dell’autore statunitense non hanno nulla di biologico, tantomeno il cervello (“positronico”per la cronaca, qualunque cosa voglia dire ).
Il grande Isaac è a tal punto consapevole della natura aliena delle sue creature da doversi inventare le tre leggi, infuse nel cervello “positronico”, che impediscono ai robot (Frankestrein docet!) di ribellarsi agli uomini.
Il robot ( chiamiamolo così senza remore!) di Mens è privo di condizionamenti salva-uomini perché, appunto, il suo cervello è umano.
Qualcuno potrebbe dire che proprio per questo inculcargli le tre leggi sarebbe stata un’utile precauzione, ma per fortuna è una persona (o cos’altro diavolo) seria e consapevole, piena di scrupoli e dubbi sulla sua integrazione con gli uomini “biologici”, o se più vi piace, “biomeccanici”.
Uno dei pregi del libro è sfumare i confini tra pensiero ( che hanno tutti, compreso l’eroe robotico) e azione, sia attraverso il “corpo” (poco importa se fatto di ferraglia o tessuti a base di carbonio) sia attraverso (ahiahi…) la tecnologia.
A questa sì, se si potesse, bisognerebbe infondere le tre leggi, per togliere a qualcuno l’ uzzolo di scaricare bombe atomiche…
Aspettatevi, nel leggere il libro, di ritrovare molto dei buoni vecchi amici robot asimooviani che, alla fin fine, erano varianti avanzate dell’uomo, anche se il robot di Mens la superiore saggezza di quelli asimooviani non ce l’ha. È uno di noi costretto a fare i conti con un prolungamento esteriore di sé ingombrante e di problematica utilizzazione.
Attraverso le peripezie di un viaggio spaziale finalizzato a scoprire la misteriosa sorte di un insediamento umano non terrestre, il nostro amico robot dovrà imparare a diventare se stesso, appropriandosi fino in fondo del “misto” mente- macchina che volente o nolente è diventato.
Pensatelo come una specie di Pinocchio, che attraversa le avventure di una movimentata favola per scoprire se rimarrà un burattino o riuscirà a diventare qualcosa di meno improbabile e imperfetto.
Memorabili i passaggi in cui si descrivono i presupposti fisico-dinamici della deambulazione da parte di chi ( anche i bambini, se ci pensate!) prova per la prima volta a camminare.
Rino Casazza
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