Ha fatto bene Jesse Owens a partecipare alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, o doveva rifiutarsi per protesta contro il razzismo allora imperante in Germania?
La domanda, dopo che Owens è divenuto un mito dell’atletica di tutti i tempi proprio per i successi ottenuti a quelle Olimpiadi, nonché il simbolo paradossale di una manifestazione sportiva pensata come apoteosi della superiorità della razza ariana, sembra assurda.
Invero, come prova a dirci il bel film storico-biografico “Race. Il colore della vittoria” di Sthepen Hopkings, sino ad oggi noto come regista di film “di tensione”, le cose non sono così semplici.
Lo stesso velocista dell’Alabama, soprannominato “figlio del vento”, non si nascondeva che sarebbe stato per lui più facile non andare in Germania, come del resto gli chiedevano molte organizzazioni anti-apartheid: una sconfitta contro gli avversari tedeschi si sarebbe tradotta in un boomerang per la causa dei neri afroamericani.
Il film attribuisce un ruolo centrale nella scelta di Owens al suo coatch Larry Snider, ex olimpionico fallito, che gli avrebbe trasmesso la sua concezione “pura” dell’atletica, considerata sfida all’ultimo sangue, ma leale, tra uomini soli con sé stessi, in cui il contesto esterno non deve entrare.
Bellissima, anche se un po’ retorica, la frase con cui “il figlio del vento” alla fine decide per la partecipazione: in pista non ci sono neri o bianchi, ebrei o ariani, ma veloci o lenti.
Questi concetti Owens ripete nell’incontro post gara col suo grande avversario, e duraturo amico, il saltatore in lungo tedesco “Luz” Long, presentato come dissidente mentre in realtà le fonti storiche lo indicano come fervente nazista.
Il colloquio berlinese tra i due campioni è memorabile, sebbene un po’ troppo “a tesi”: l’americano nota che in Germania gli atleti sono trattati molto meglio che negli U.S.A., e il tedesco ribatte con un quadro fosco delle follie razziste hitleriane, porgendo su un piatto d’argento a Jesse l’amara battuta che follie simili lui le vive quotidianamente a casa propria.
Già: presentare Owens come icona dell’uguaglianza tra gli uomini (e il film di Hopkings meritoriamente semina dubbi, anche a costo di travisare la verità storica) nell’epoca del più duro apartheid americano, suona un po’ falso.
Race, in arrivo il 24 agosto:
I Giochi di Berlino erano il fiore all’occhiello del truce gerarca Goebbels, e fino all’ultimo gli americani furono tentati di boicottarli, cosa che non avvenne grazie all’olimpismo intransigente del dirigente sportivo del Michigan Avery Brundage (nel film interpretato dal solito grande Jeremy Jrons), al quale tuttavia viene riservato un trattamento severo considerandolo responsabile dell’esclusione di due atleti ebrei statunitensi dalla finale della staffetta 4 per 100, sotto ricatto di Goebbels di rivelare alcuni suoi loschi traffici col regime nazista.
È noto che Owens deve gran parte della sua notorietà alla cineasta tedesca Leni Riefenstahl, che ne fece la star del film “Olympa”, commissionatole senza badare a spese per celebrare l’evento.
La Riefenstahl in “Race. Il colore della vittoria” viene rappresentata per quel che era, ovvero una seguace del nazismo quale apice della grandiosità umana, e sono credibili le sue insofferenze verso i bastoni tra le ruote ideologici che il Ministro della Propaganda zoppo mise al suo reportage, come l’ordine di non riprendere la finale dei 200 metri per non dare troppa visibilità a Owens (ma oramai la frittata era fatta, con le immagini esaltanti della cavalcata del “colored” dell’Alabama nei 100 metri, e del duello epico tra lui e Long nel salto in lungo).
E veniamo al fattaccio che tutti conoscono, ossia il rifiuto di Hitler a stringere la mano a Owens per l’irritazione verso i successi del membro di una razza inferiore.
Hopkings rimane fedele a questa versione, pur chiudendosi il film, per par condicio, con la scena penosa del quattro volte medaglia d’oro costretto, in patria, a entrare dalla porta di servizio, come gli altri neri, per partecipare in un albergo di lusso a una manifestazione pubblica in suo onore.
A pensarci bene, la notizia dello sgarbo hitleriano avrebbe dovuto dar da pensare fin dall’inizio. Di certo il dittatore non fece salti di gioia assistendo al trionfo di Owens su un atleta “ariano” simbolo come “Luz” Long, e neppure vedendolo sconfiggere la staffetta tedesca assieme agli altri tre componenti (ma nessuno ebreo…) della squadra americana .
Ma i Giochi di Berlino furono complessivamente un trionfo sportivo per la Germania, di gran lunga al primo posto nel medagliere, ela grandiosa organizzazione ne fece il top nella storia olimpica fino ad allora.
Perché esporsi a quella figuraccia?
Com’è noto l’episodio della mancata stretta di mano di Hitler a Owens è stato smentito non solo dalla testimonianza di un atleta italiano, Arturo Maffei, quarto classificato nel salto in lungo, che potrebbe esser sospettato di simpatie nazifasciste, ma dallo stesso “figlio del vento” nella sua autobiografia.
Owens afferma che, contrariamente alle distorte ricostruzioni, Hitler gli dimostrò più considerazione di quanta ne ricevette dal Presidente Roosevelt. Il padre del “new deal” non solo non lo volle mai ricevere, ma non gli inviò nemmeno un telegramma di congratulazioni.
Rino Casazza
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