Per un’appassionatissimo di cinematografia fantascientifica come me, questo film era proprio imperdibile. Inevitabile anche che lo amassi molto.
I motivi di questo apprezzamento “a scatola chiusa” stanno, certo, nel nome del regista, Neill Blomkamp, che ha offerto buonissime prove nel genere con il recente colossal “Elisyum” e col meno popolare ma forse ancora più valido “District 9”, ma soprattutto per la presenza nel cast di due icone della fantascienza del grande schermo, nientemeno che Siougurney Weaver, la Ellen Ripley del ciclo di Alien ( nonché la dottoressa Grace Augustine di “Avatar”), e Hugh “Wolverline”Jackman, principe degli “X-Men”.
Il ricorso a questi due interpreti storici, dei quali solo il secondo ha un ruolo di rilievo pur non essendo protagonista, mentre la prima si cimenta in poco più di un “cameo” , è un’indicazione chiara: “Humanoid” non si propone di lasciare una traccia nuova nel genere, obiettivo difficilissimo se non addirittura impossibile in un filone ormai frequentatissimo, ma cerca di mescolare in un mix, questo sì originale, alcuni temi della fantascienza cinematografica che hanno contribuito, in precedenti pellicole, alla popolarità e alla grandezza del genere.
Mi limiterò qui a citarli, lasciando al lettore il gusto di scoprire, guardando il film, se la loro “contaminazione” in “Humanoid”, e secondo me sì, ha prodotto un risultato felice.
Alla base c’è il tema dell’androide, o cybor, come trattato nel similare “Robocop” e suoi sequel. Chi ha dimenticato il robot poliziotto Alex Murphy, efficientissimo nella lotta anticrimine, e allo stesso tempo fragilissimo per i residui ingombranti della sua natura umana? Anche “Humanoid” è la storia di cosa potrebbe accadere, nel bene e nel male, se in un futuro la tutela dell’ordine pubblico venisse affidata non agli umani ma a macchine computerizzate, praticamente indistruttibili.
C’è poi, più nascosto, ma altrettanto centrale, il tema di fondo del meraviglioso capolavoro “Blade runner”, con i suoi infelici “replicanti” che non perdonano all’uomo, elevatosi così al ruolo di vero e proprio creatore, di averli fabbricati identici a sé nell’autocoscienza ma con un scadenza prestabilita, il “time to die” del famoso testamento finale di Roy Batty, l’ultimo replicante interpretato dal grande Rutger Hauer. Lo stesso tormento degli esseri umani, ma in peggio: noi, infatti, non conosciamo il giorno della nostra morte.
Da ultimo c’è il tema, più sottile, ma forse il più significativo, del candore dell’intelligenza artificiale, a riprova che le macchine simil umane possono essere migliori di noi. E’ il leit-motiv di un colossal non apprezzato quanto meritava dal pubblico e dalla critica, quel A.I. – Artificial Intelligence nato dalla collaborazione tra Steven Spielgerg, autore della regia, e Stanley Kubrik, coautore della sceneggiatura prima della sua scomparsa. Chi non si è commosso alle vicende del robobambino David, che fa diventare assoluto il suo stolido, impossibile amore per la “mamma”?
Insomma Humanoid é un esempio di come si possa fare buon cinema, spettacolare e di contenuti, senza battere nuove vie forzate e rischiose, ma inserendosi con misura e rispetto nel solco della tradizione.
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