Meglio dire la verità o mentire? E’ questa la domanda che ci propone il recente film Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, regista che con Una famiglia perfetta e Tutta colpa di Freud ha già dimostrato di saper rivisitare con verve il difficile genere della commedia all’italiana.
Il tema della menzogna è affascinante sotto molti punti di vista, in primis quello filosofico e, naturalmente, teologico. Val la pena ricordare che il padre della Chiesa SantAgostino in materia è tranciante: mentire è sempre peccato, punto. Non sono altrettanto rigidi pensatori cattolici più vicini a noi, che si pongono il problema del danno che può provocare la verità. Il caso, estremo, assunto ad esempio riguarda, non a caso, la Shoah: se un buon cristiano, a conoscenza del nascondiglio di ebrei fuggiaschi, fosse stato richiesto di rivelarlo da un aguzzino delle SS, come avrebbe dovuto comportarsi? Seguendo alla lettera l’aureo precetto di SantAgostino avrebbe contribuito a spedire in un lager degli innocenti. Così qualcuno dice, con buone ragioni, che la verità va detta solo a chi lo merita.
Il film di Genovese, nonostante il tono leggero e le conseguenze molto meno drammatiche della sincerità a tutti i costi, si interroga e ci interroga proprio su questo nervo scoperto. Grazie a tale sottofondo serio riesce a superare un apparente difetto: l’artificiosità della situazione proposta e ancor più i suoi sviluppi. E’ la cifra del regista romano, inventore, potremmo dire, della “commedia a tesi”. laddove il gioco del paradosso e del grottesco vuole innescare riflessioni sul senso dei rapporti umani.
Un gruppo di amici storici, tre coppie e un single, si riunisce come tante altre volte per una cena allegra. Ad un certo punto, chiacchierando chiacchierando tra lazzi e frizzi,, salta fuori l’idea di un divertissement assolutamente sconsigliabile per le sue insidie: tutti i cellulari sul tavolo, per condividere messaggi e telefonate. Tanto che cosa possono avere da nascondere gli uni agli altri mariti e mogli e conoscenti pluridecennali?
Il risultato sarà lo scoperchiarsi di un insospettabile vaso di Pandora, con uno scoppiettio di sorprese tra l’esilarante e il penoso.
Come al solito, glisso sui particolari, per non togliere il piacere di un film che rimane, soprattutto, divertente. Però.
Come evitare che il pensiero corra, soprattutto nel finale, ad un grande personaggio della tradizione teatrale, Alceste, protagonista della commedia molieriana in agrodolce il Misantropo? Colui che per portare fino in fondo la vocazione alla schiettezza finisce per condannarsi al romitaggio?