Come previsto dai dettami della narrativa gialla, il morto (in questo caso sono due) si offre, subito, nel primo capitolo con tutto il carico di mistero e crudezza giusto per spalancare le porte della scena del crimine alla curiosità del lettore e ai meccanismi dell’intrigo investigativo. La vicenda narrata ne L’uomo di Berlino (esordio editoriale di Luke Mccallin e recentemente pubblicato da Baldini & Castoldi) è ambientata nel 1943 in piena occupazione nazista dei Balcani. Un palcoscenico certamente originale per gli appassionati del delitto ambientato nel periodo della seconda guerra mondiale. I due corpi vengono rinvenuti nel salone di una lussuosa villa alla periferia di Sarajevo. Sangue rappreso ai muri e alle pareti, tintinnio di porcellana e lacrime femminili fanno da sottofondo al ritrovamento di Marija Vukic, una giovane regista e giornalista ustascia, donna amata dal suo pubblico per i reportages girati sui fronti di guerra al seguito delle truppe tedesche, una donna con le mani in pasta dappertutto, uccisa con 18 colpi d’arma da taglio. Accanto a lei il cadavere di un ufficiale tedesco, il tenente Stefan Hendel, responsabile della sicurezza interna dei servizi segreti. Il compito di scoprire la verità viene affidato a Gregor Reinhardt, ufficiale della Wermacht con una ventennale esperienza nella Kriminalpolizei, affiancato nel suo lavoro di indagine dall’ispettore Andro Padelin della polizia croata.
La trama prosegue rispettando i canoni della letteratura di genere, un militante comunista preso come capro espiatorio per chiudere il caso, un paio di false piste, una scia di cadaveri e il torbido che pervade le stanze del potere, con le ambizioni politiche e personali dei suoi protagonisti. Un mondo di verità nascoste sotto la crosta del buio e dell’omertà destinato a svelarsi lasciando una traccia profonda sia nel protagonista che nel lettore.
L’uomo di Berlino si presenta come un romanzo rigoroso. Lo è nello stile ricco delle mille sfaccettature che rendono credibile ambientazione e realtà del passato, un insieme fruibile quasi come fotogrammi cinematografici. Un mosaico composto da mille tasselli, la credibilità urbana, lo sferragliare dei tram, il tintinnio delle medaglie sulle divise degli ufficiali, i volti carichi d’odio degli ustascia, i manifesti strappati dai muri, le arcate gialle del mercato, i sidecar e le bandierine sulle vetture dei diplomatici.
Ma il romanzo è rigoroso anche nel ritmo sempre alto di scrittura e nella caratteristica opacità d’atmosfera di cui la vicenda è intrisa. Quasi torbida. I contorni non sono netti, tutto sfuma nell’amalgama degli aspetti più dissonanti dell’epoca, arroganza, boria, tradimenti e falsità, e delle contraddizioni umane tipiche degli anni della grande catastrofe annunciata, base di una guerra crudele che ha insanguinato, oltre ai Balcani, l’intera Europa.
Rigoroso anche il profilo del protagonista Gregor Reinhardt che traspare attraverso gli incubi notturni e i tormenti alla luce del sole, ferite invisibili lasciate dalla sua esperienza al fronte nel 1914, ai dolori famigliari e alla sua personale contrapposizione al pensiero nazista. La complicità dell’alcol, il tormento delle immagini del suo passato lo perseguitano come quelle dei prigionieri di guerra dentro stanze spoglie e illuminate da luci asettiche, a ricostruire l’enigma che ognuno di loro rappresentava. E poi, quella voglia quasi fisica di premere la canna della pistola alla tempia, un desiderio che lo assale tra una sigaretta Atikah e la successiva.
L’uomo di Berlino è un romanzo scolpito nella pietra, imponente nella sua durezza ma con un’armonia che ci avvicina al suo protagonista e al periodo storico tanto da lasciarci l’ennesimo dubbio (all’interno di un confronto che non avrà mai fine) sul fatto che un thriller di qualità debba per forza essere etichettato sempre e solo come tale o se non debba rientrare a pieno merito nel mondo della letteratura.