Bisognerebbe avere l’onestà di riabilitare Dan Brown, nonostante l’autore americano abbia tutto per essere mal giudicato.
Quando uno scrittore invade il mondo coi suoi libri, come è capitato al nostro dopo l’uscita de “Il codice da Vinci” il pregiudizio che si tratti di un fenomeno creato ad arte dai manipolatori del marketing editoriale scatta inevitabile.
Sorte toccata a tanti altri suoi colleghi, spesso meritatamente, anche se non mancano ingiustizie, come quella che riguarda Stephen King, snobbato quale maestro di effettaci che strizzano l’occhio al lettore meno avveduto, e invece talento vero, basta leggersi le storie che hanno per protagonisti bambini o adolescenti ( e mi piace citare “La bambina che amava Tom Gordon”) degne del miglior Mark Twain.
Dan Brown, intendiamoci, ha poco da spartire con King, la cui scrittura è senz’altro più raffinata, ma è ingeneroso dire che la sua narrativa è costruita a tavolino, per riempire uno dei pochi vuoti rimasti nel supersaturo genere del “thriller”, ovvero gli intrighi riguardanti le arti figurative, campo d’azione del detective creato dalla fantasia di Brown, il professor Peter Langdon.
Innanzitutto la prova senz’altro più debole di Brown è proprio quella che gli ha fatto fare, come si dice, “il botto”, ovvero il celeberrimo “Il Codice da Vinci”, assai più valido come saggio divulgativo sul mistero, indubbiamente affascinante, del Sacro Graal che come storia di “suspance” in sé.
Migliori senza dubbio sia “Angeli e Demoni” (nonostante la patina da fumettone), precedente ma lanciato su scala mondiale dopo il successo de ” Il Codice da Vinci”, sia, soprattutto “Cripto”, opera prima di Brown, un bel “thriller” serrato che riesce a dire la sua su un argomento non proprio originale come lo spionaggio informatico.
Che Brown abbia scritto qualcosa di veramente buono, anzi: di migliore prima di diventare il Re Mida de “Il codice da Vinci”, è il punto di partenza per una valutazione equa.
Sua caratteristica peculiare, che emerge proprio in “Cripto” è la bravura nel gestire tempi dilatati con scorrevolezza e senso del ritmo. Tutte le storie fin qui pubblicate dall’autore americano abbracciano un arco temporale breve, al massimo qualche giorno, eppure la narrazione si prolunga per centinaia e centinaia di pagine senza mai sconfinare nel tipico mattone della letteratura popolare anglosassone.
Il segreto sta nell’accorta alternanza degli ingredienti.
In “Inferno” questa tessitura a incastro di temi narrativi si arricchisce addirittura rispetto alle prove precedenti.
C’è, come sempre, l’approfondimento della storia dell’arte e dell’architettura mondiale, in questo caso in prevalenza italiana, visto che la vicenda si svolge per la maggior parte in due città simbolo del nostro paese, Firenze e Venezia.
C’è poi l’azione, sotto forma di un intrigo internazionale, pieno di misteri, ribaltamenti e colpi di scena, stavolta davvero vertiginosamente complesso come nelle trame migliori del re delle storie a scatole cinesi, Jeffrey Deaver, erede moderno della grande Agatha.
Non manca nemmeno, ed è forse l’aspetto che più piacerà ai lettori non “di genere”, una galleria di personaggi difficili da dimenticare, apparentemente stereotipati ed invece ricchi di sfaccettature che la storia nel suo evolversi mette in luce.
Infine, questo romanzo tanto migliore della sua cattiva fama di prodotto effimero, si permette di allargare lorizzonte, ed in modo non convenzionale, a problematiche che vanno al di là della letteratura d’evasione.
Di più credo sia difficile chiedere.