Come si truccano le elezioni? In tanti modi. C’è chi confessa il metodo, c’è chi ne studia sempre di nuovi. Ma davvero nelle democrazie vincono quelli eletti dal popolo? Fronte del Blog vi racconta alcune strane storie…
Di Manuel Montero
Avete presente quando Silvio Berlusconi scese in campo e i suoi detrattori opposero il conflitto d’interessi? Un gruppo di famosi conduttori Mediaset si schierò pubblicamente a favore dell’imprenditore e vennero fatte battaglie per vietarlo, nel timore che le sue tv, i suoi artisti e i suoi giornali condizionassero il voto. Era il 1994, eppure sembrano passati secoli, se si pensa ai passi da gigante che ha fatto la Rete, spazzando via quotidiani d’opinione e togliendo enormi fette di pubblico alla televisione. Già, la Rete. E ricordate gli show di Beppe Grillo sugli influencer, sul voto su internet (con cui il Movimento 5Stelle fa tuttora le primarie) e sulla democrazia perfetta online? Beh, dimenticate tutto.
Dimenticate le influenze di artisti, tv, giornali e opinionisti della Rete. Dimenticate la perfezione dell’online. È tutto sepolto. Soprattutto dopo che Andrés Sepùlveda ha parlato con la rivista Bloomberg. Perché è lui a spiegare come si influenzano le elezioni. Anzi, addirittura come si possono truccare usando, tra le altre cose, proprio la Rete. Trentuno anni, di professione hacker, pratica che esercita più o meno dall’età dell’adolescenza, si trova oggi in un carcere di massima sicurezza di Bogotà. Dove, impossibile dirlo, dato che si teme per la sua vita, essendo diventato collaboratore di giustizia. E Andrés, accusato di cospirazione, spionaggio informatico e violazione della privacy, reati commessi nel 2014, durante le elezioni presidenziali in Colombia, si confessa. Racconta come, per ben otto anni, sarebbe riuscito a cambiare il corso delle votazioni nientemeno che in nove Paesi del Sudamerica: Nicaragua, Panama, Honduras, El Salvador, Colombia, Messico, Costa Rica, Guatemala e Venezuela. In Messico, ad esempio, per 600mila dollari, avrebbe favorito l’elezione del presidente della Repubblica, Enrique Peña Nieto, il quale ha prontamente smentito, bollando le sue affermazioni come “farneticazioni”. Ma Andrés, che appunto parla da una prigione, snocciola anche i sistemi che avrebbe utilizzato: manipolando, da una parte, i social media, con migliaia di account falsi a favore del candidato e contro l’oppositore. E dall’altro installando spyware nei pc degli uffici dei partiti di opposizione. La versione modernissima della propaganda e dello spionaggio fatto un tempo con cimici e 007 addestratissimi, il tutto a portata di clic. Il personaggio si presta facilmente ad un’immagine cinematografica: testa rasata, un codice a barre crittografato tatuato dietro la testa, il codice html inciso davanti. Ma le sue parole vengono valutate con estrema attenzione: «Il mio lavoro – svela a Bloomberg – è condurre una guerra sporca, con operazioni di ingegneria sociale, black propaganda e pettegolezzi in modo da orientare l’elettorato». Un po’ come nell’ultima stagione di House of Cards, dove un candidato vince la tornata elettorale grazie ai Pollyhop, ossia i data di un motore dei ricerca. L’hacker sostiene di essere mosso da motivazioni principalmente politiche, avendo assistito alle violenze della guerriglia marxista in Colombia, e per questo si sarebbe mosso in favore dei leader di destra. Ma, ciò che più inquieta, è la risposta che dà ai cronisti su un possibile broglio alle prossime presidenziali americane. Perché ha risposto in questo modo: «Sono sicuro al 100 per cento che sia così».
LA FLORIDA
Ora, che la Rete non sia affatto sicura, lo dimostra la scelta della Norvegia, che, due anni fa, dopo aver sperimentato massicciamente e tra i primi il voto elettronico a partire dal 2003, decise di fare un passo indietro. In un comunicato espresse la preoccupazione che le piattaforme utilizzate per il voto fossero preda di attacchi hacker. Ma Andrés, per esprimersi così, avrà le sue buone ragioni. E forse un giorno le spiegherà. L’ultima volta che invece qualcuno parlò a lungo di brogli nelle presidenziali americane, fu il 2000, con l’elezione di George W.Bush. Bush Jr vinse grazie ad appena 537 voti in più rispetto ad Al Gore nella Florida, diventando il quarto in tutta la storia degli Stati Uniti a essere proclamato presidente avendo ricevuto in assoluto meno voti dell’avversario.
Gore globalmente ottenne infatti 539.947 voti in più di Bush, ma il meccanismo dei grandi elettori assegnò a quest’ultimo 271 voti e a Gore 267. Solo che in Florida successero fatti anomali, per alcuni decisivi: in alcune contee giunsero schede elettorali di pessima qualità. Per dare la preferenza andava bucato un pezzo di carta grande la metà di un coriandolo di fianco al nome del candidato, ma spesso il pezzo non si staccava del tutto e la scheda veniva classificata come bianca. Diversi voti dall’estero andarono persi. E quasi 180mila non furono accettati per errore formali. Tanti, nell’ordine di migliaia, non poterono votare perché iscritti erroneamente nelle liste delle persone che avevano perso il diritto di voto. Si trattava per la gran parte di persone di colore, le cui simpatie erano indirizzate, si sostenne, verso i democratici. Successe altro. Più o meno 15mila persone disertarono le urne perché i giornali avevano già annunciato erroneamente la vittoria di Gore in Florida, spiegando, ancora per errore, che i seggi erano stati chiusi in tutto lo Stato. Per il risicatissimo vantaggio di Bush Jr si doveva andare al riconteggio. Il governatore della Florida era suo fratello Jeb e fece di tutto per impedirlo. Di fatto la Corte Suprema bloccò il riconteggio manuale in Florida l’11 dicembre 2000. E Bush divenne presidente.
WATERGATE
Ma evidentemente se diamo retta alle parole di Andrés, esperto di spionaggio informatico, più che a ipotesi su vittorie risicatissime, la mente non può che tornare ai due anni che infiammarono l’opinione pubblica americana: le intercettazioni abusive al Watergate Complex, sede del partito democratico, ad opera di uomini legati alla Cia e al partito repubblicano. Li beccarono in flagrante: il 17 giugno 1972 una squadra di “idraulici” venne sorpresa mentre tentava il sabotaggio. Qualificatisi come agenti governativi – ma tra loro c’erano anche Howard Hunt e Gordon Liddy, membri del comitato per la rielezione di Richard Nixon– diedero la stura ai cronisti del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward, per una clamorosa inchiesta giornalistica che due anni più tardi portarono Nixon, di cui era stato richiesto l’impeachment, alle dimissioni. Anche se non per tutti si trattò di una grande azione della stampa.
Noam Chomsky, ad esempio, sottolineò l’ambiguità dei media americani nel far esplodere lo scandalo, che di fatto coprì le rivelazioni sul programma di controspionaggio statunitense in cui erano descritte, sostenne «alcune grosse operazioni dell’FBI per compromettere le libertà politiche negli Stati Uniti durante tutte le amministrazioni a partire da Theodore Roosevelt, con un incremento negli anni di Kennedy». Operazioni che comprendevano, tra gli altri, l’omicidio di un leader delle Pantere Nere, Fred Hampton, e l’istigazione di sommosse razziali per mettere sotto scacco i movimenti neri e degli indiani d’America. Il Watergate, insomma, come madre di tutte le spy-story.
REPUBBLICA O MONARCHIA?
Anche l’Italia ha avuto i suoi misteri in proposito, proprio sulla nascita della Repubblica col referendum del 2 e 3 giugno 1946 in cui la monarchia venne battuta per 54,3% contro 45,7%.
Furono i monarchici a sostenere l’ipotesi del broglio: con 3 milioni di voti che, secondo le loro stime, erano andati persi. Una tesi vedeva Togliatti ritardare il rientro in Italia dei connazionali reduci dai campi di prigionia russi. Sempre secondo la tesi complottista, non si aspettò il rientro anche dei molti prigionieri di guerra ancora all’estero. E poi Trieste, Bolzano e Gorizia non erano ancora state ridate all’Italia e avrebbero forse potuto cambiare il voto. Forse. C’è chi disse che un elevato numero di elettori avesse usato documenti falsi per votare più volte e chi rimase sbalordito dal cambiamento dei risultati dello spoglio, che vedevano inizialmente in vantaggio la monarchia.
Nel 2012 uno studio di Vanni Mengotto e Andrea Venturini pubblicato sulla “Rivista di storia economica” edita da Il Mulino, ha ridotto però più o meno a zero le probabilità che in quel referendum siano avvenuti effettivamente dei brogli. Seguendo la scia degli altri principali storici, nessuno dei quali ha mai “certificato” il broglio.
DAL VIETNAM ALLA BIRMANIA
Più complessa la questione del referendum per la nasicta del Vietnam del Sud del 1955, che poi divenne Repubblica del Vietnam. Anche qui si doveva scegliere: monarchia o repubblica. Il voto non era segreto: alla preferenza era assegnato un cartoncino di diverso colore, che andava messo nell’urna di preferenza. E che ci furono brogli (vittoria schiacciante della repubblica col 98,2%) risulta da alcuni dati oggettivi. A Saigon, ad esempio, vennero attribuiti 600mila voti ai repubblicani. La stranezza? Gli iscritti al voto erano 450mila. Ma non avvenne solo lì. La repubblica riuscì a ottenere 386mila voti in più…degli aventi diritto!
Altre accuse di brogli ci sono state in Bielorussia nel 2006. Ad Haiti. In Iraq. Ma più in generale in Paesi in cui il confine tra la stabilità e la guerra civile è molto labile. O ancora, ovviamente, nel caso delle elezioni farsa dei regimi. In Birmania l’8 novembre 2015 si sono tenute le prime elezioni libere dal 1990, anche se il regime è partito nel lontano 1962. Sarebbe potuto cadere appunto nel 1990, quando il voto popolare assegnò la vittoria alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi – poi premio Nobel per la Pace- ma i militari ne annullarono l’esito. Nel 2010 la giunta militare mandò a referendum un testo costituzionale e andò ad elezioni. Per non sbagliare, arrestò prima San Suu Kyi con un pretesto, per poi liberarla a votazioni fatte.
LE ELEZIONI DIGITALI
A Honolulu si sono fatte votazioni attraverso un sito cui ci si poteva iscrivere passando da Google+ o da Facebook, ma a livello locale. Sostiene infatti David Wagnet, dell’University of California Berkeley: «Il rischio che si corre utilizzando un sistema online è che un malintenzionato riesca a modificare facilmente un gran numero di voti memorizzati». Detto fatto: nel 2015 il District of Columbia ha fatto un esperimento chiedendo ad alcuni hacker di provare a forzare le difese del voto elettronico per il rinnovo del consiglio scolastico. E Alex Halderman, informatico dell’University of Michigan, ha cambiato l’esito delle elezioni, facendo eleggere un robot. Figuriamoci con uno Stato, quante cose si possono fare. E allora, forse, Andrés non è proprio un mitomane. Anzi.
I SISTEMI ALL’ITALIANA
Nel 2014 il Fatto Quotidiano ha incontrato un esperto che avrebbe raccontato come si truccano le elezioni pagando gli elettori per il voto. Ma questo è un fatto noto. Come noto è l’espediente in voga nel momento in cui iniziarono ad essere in giro i videofonini, di fotografare il voto per essere ricompensati. In un secondo servizio, datato 2011, i cronisti del medesimo giornale davano invece conto di come avrebbero funzionato a lungo le cose a Casal di Principe, con la “scheda ballerina”, così come emergeva da un’inchiesta della magistratura. Ossia: “l’organizzazione forniva al primo elettore pagato una scheda vidimata e firmata dagli scrutatori, ma già votata. Dopo averla infilata nell’urna doveva uscire con quella bianca e il giro poteva continuare all’infinito”. E ancora, sarebbero stati monitorati quelli che non votavano, per le più disparate ragioni. Poi qualcuno avrebbe preso il loro posto grazie al duplicato della tessera elettorale dei non votanti, con tanto di carta d’identità falsa, ovviamente con la complicità di funzionari comunali. E il gioco era fatto.
È vero, sono sistemi che non possono funzionare su larga scala, per l’elezione di un intero Parlamento. Perché non si può controllare un territorio tanto grande. Ma è anche vero che, ad esempio, puoi perdere la presidenza degli Stati Uniti per soli 500 voti.
Manuel Montero