Di recente è uscito per l’editore veronese Delmiglio, Le maledizioni di Bassavilla. Si tratta di una raccolta di racconti accomunati dall’ambientazione nella misteriosa e inquietante Bassavilla che dà il titolo al volume. Curata da Danilo Arona, l’antologia vede la presenza di altri 14 autori: Giorgio Bona, Marco Caudullo, Lorenzo Crescentini, Giuliano Fiocco, Angelo Marenzana, Robert Mass, Rossana Massa, Luigi Milani, Gigi Musolino, Fabio Novel, Stefano Pastor, Claudia Salvatori, Raffaele Serafini, Fabrizio Vercelli.
Lo stesso Danilo Arona, curatore e prefatore, ci aiuta a svelare una parte del mistero di Bassavilla.
Mi si chiede qualche volta perché Alessandria nei miei romanzi debba cambiare il suo nome, bello o brutto, in Bassavilla. E perché proprio “Bassavilla”? Posso cominciare col rispondere al secondo quesito.
“Bassavilla” nacque, per scherzo una sera a cena con Remo Guerrini e Rudi Bargioni. Un bel po’ di anni fa. Remo aveva appena dato alle stampe, per Mondadori, L’estate nera, (recentemente ripubblicato da Newton Compton) un ottimo gotico rurale ambientato in un paese chiamato Altavilla.
Occorre puntualizzare che Altavilla Monferrato esiste e ci producono una celeberrima grappa, quindi non si tratta affatto di un luogo immaginario. Però il diabolico Remo aveva usato la vicinissima Vignale come modello per la location del romanzo, e a questa aveva appositamente affibbiato un nome “sbagliato”. Remo garantiva che tanto bastava per “spaesare” il lettore, magari infilandoci un supplemento di due o tre particolari inesistenti, onde suggerirgli che la vicenda si svolgeva in un “non luogo” letterario, una sorta di paesaggio della mente il cui nome di battesimo significava una zona geografica, un climax, un modo di essere più che il luogo specifico al quale il nome in questione era stato rubato. Complici i buoni vini del Monferrato, a un certo punto Altavilla partorì il suo alter ego in negativo, Bassavilla, sull’onda del traballante ragionamento che un’ulteriore alterazione del nome (al ribasso) avrebbe accentuato, nei confronti di una “piemontesità” da indagare, la nozione del “non luogo”. Quando iniziai ad ambientare alcune delle mie storie in Alessandria, era mio desiderio di usare la mia città natale come una Castle Rock alla Stephen King, ovvero una “fictional town” da trasfigurare a mio piacimento, non alterandone però le caratteristiche di immediata riconoscibilità. Con un paragone illecito, la Macondo di Marquez ispirata ad Aracataca, e allo scopo il nome “Bassavilla” funzionava benissimo.
Peraltro il nome si porta dentro il riferimento alla città di “bassa pianura”, quale Alessandria in effetti è, nonché una sorta di metaforica tendenza a frequentare il Male, il che non è affatto vero (ma lo è nei territori del mio immaginario). A tutto questo innocuo travaglio letterario gli alessandrini sembrano essere abbastanza estranei, ma non me ne faccio un cruccio, perché la mia operazione OGM piace molto all’esterno, e più ti allontani da Alessandria, più la “causa” di Bassavilla trova proseliti. Basti pensare che il primo Cronache di Bassavilla è stato editato e sostenuto con convinzione da una casa editrice a me molto cara (Dario Flaccovio Editore) che ha la sua sede a Palermo. Ma non dovrei dimenticarmi di Daniele Bonfanti, Alan Altieri e Claudia Salvatori, fra i tanti fan della Città Fantasma.
Per tutti può risuonare la voce della bravissima Marilù Oliva, scrittrice e saggista di rara finezza, quando attesta che “Bassavilla è un non-luogo, appunto, ed è i propri dintorni, le cronache, le ombre, gli spiriti che fanno spallucce alle tecnologie e alle miscredenze; Bassavilla sa far scomparire le certezze così come lei stessa è riuscita ad apparire dal nulla, tra le paludi, il primo giorno della sua genesi, grazie a una sinergia magnetica…”. Agli alessandrini non facciamolo sapere. Però i “bassavillesi” (si dirà così?) varrebbe la pena di tenerseli buoni.
La pretesa mitologia di Bassavilla fa riferimento a un tòpos più che classico della letteratura fantastica: il villaggio maledetto; il (relativamente) piccolo paese dove il Male ha deciso di scatenarsi; gli abitanti strani che si conoscono tutti e guardano storto lo sfigato viandante. La tradizione viene da lontano, dalla letteratura del New England (e “alla” New England) poi filtrata dal cinema e rilanciata dai moderni alfieri dell’horror. Un mitologema che annovera tra i padri spirituali il Nathaniel Hawthorne de Il velo nero del pastore, in cui il luogo infernale chiamasi Milford, o la Edith Warthon di Storie di fantasmi, dove le piccole comunità cambiano di nome, ma non di fatto, a ogni fantasma chiamato in causa. E naturalmente Lovecraft con le sue comunità immaginarie che si chiamano Salem, Arkham, Innsmouth, Kingsport e Dunwich, veri e propri portali con l’Altrove, Tra gli anni Cinquanta e Sessanta certi horror di Roger Corman (che proprio a Lovecraft si ispiravano, primi fra tutti La città dei mostri e La morte dall’occhio di cristallo, diretto da Daniel Haller) e alcuni notevoli cult fantascientifici fecero propria la location, con la celeberrima Santa Mira de L’invasione degli ultracorpi (poi rivisitata in Halloween 3), la Sand Rock di Destinazione terra e la Desert Rock di Tarantula, ambedue firmati da quel genio del fantastico quotidiano ante litteram che era Jack Arnold, per arrivare alla Bogega Bay invasa dai pennuti di Alfred Hitchcock. E’ da questo coagulo di suggestioni che nascono le Castle Rock, Jerusalem’s Lot, Derry e altro ancora del vate Stephen King, ma pure la Oxrun Station di Charles L.Grant (una saga di 10 titoli, ma solo due usciti in Italia), la Blackstone di John Saul e la Bordertown di Robert McCammon. E, per citare ancora indimenticabili ricadute mediatiche, basterà scriverne solo il nome: Twin Peaks.
In Italia ci stiamo lavorando. Intanto perché siamo molto più pochi e l’horror “territoriale” da noi gode alterne fortune. Ma perché poi alla fine la nostra nazione offre sul serio scorci così intimamente “gotici” che non occorre affatto inventare loca infesta o paesi terribili ex novo. Il messaggio giunge allora forte e chiaro: si tratta solo di “trasfigurare”, con pochi e accorti tocchi, quel che già esiste e che di per suo appare assolutamente inquietante. Stiamo ancora vivendo di rendita dalla sublime lezione di Pupi Avati (La casa dalle finestre che ridono) che diede la stura ai sottofiloni del gotico padano. Amici scrittori come Eraldo Baldini e Gianfranco Nerozzi non si spostano di un chilometro dai “loro” posti. E in questo hanno ragione da vendere, perché la Romagna è come il Maine di King. Fa paura, nelle giuste mani di un grande scrittore. E su questo fronte Nicola Lombardi con i suoi Ragni Zingari offre ampio materiale “da meditazione”. Poi, se ci spostiamo un po’ più a nord, in direzione del Piemonte, potremmo prima transitare dalle parti di Tiziano Sclavi per valle Scuropasso. Anche qui paura da vendere.
Il Piemonte è come la Romagna. O come la piana pavese di Sclavi e Mino Milani. O come l’entroterra ligure di Elvezio Sciallis o il Salento spettrale di Oscar Dimonopoli. Funziona, funziona alla grande. Come scrisse Alessandro Defilippi nella prefazione all’antologia Nero Piemonte e Valle d’Aosta (Perrone Edutore, 2019), dal significativo titolo Le radici del male, la nostra è “una terra naturalmente noir, una terra in cui pare di avvertire accanto a noi, se solo porgiamo l’orecchio, le voci delle masche o la presenza di uno sconosciuto che ci guarda senza apparente ragione, lungo i viali alberati delle città, così geometrici, così ordinati.” Ed eccoci a Bassavilla. La mia città che assurge a negazione della città, sfuggente, impalpabile e impenetrabile soprattutto quando si tratta di lambirne le sfumature attraverso fantasmi e arcani. Un luogo geografico preciso che perde nitidezza nel momento in cui diventa letterario e nel momento in cui l’evento viene trasposto in bacheca cronachistica.
Così Matteo Righini, nel suo saggio all’interno del volume, curato da Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, “I luoghi della letteratura italiana”, ha dato una spiegazione alla suddetta negazione: «La difficoltà di parlare della città in termini di “luogo letterario” sta nel fatto che la città moderna, come si è venuta sviluppando approssimativamente negli ultimi due secoli, non è un luogo.»
Come attestai proprio in Cronache di Bassavilla, «… lei è stata costruita su una Sincronica Maggiore, una delle più potenti linee di scorrimento, e molti dei suoi abitanti vedono fantasmi e prevedono catastrofi. É una specie di talismano che pulsa in un certo modo. Sotto è piena di gallerie che conducono in strani posti con strani altari. Da quelle parti viaggiano le idee.»
E allora, citando l’amico Daniele Bonfanti, alla fine diventa impossibile resistere alla tentazione di saltare in auto, imboccare l’uscita per Alessandria, e scrutare –sperando e temendo insieme— se dalla nebbia sbuca d’improvviso il cartello “Bassavilla”.
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