Quarantadue anni fa, nelle ore che precedettero l’appuntamento referendario sul divorzio del 12 maggio 1974, in un clima di forte tensione politica e sociale, la città di Alessandria venne scossa dalla notizia di un sequestro di ostaggi da parte di tre detenuti in rivolta all’interno del carcere don Soria.
Il racconto che segue, Oltre il muro (tratto dall’antologia Bersagli innocenti, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2009), utilizzando lo strumento narrativo, segue passo dopo passo il reale sviluppo dei fatti che schiacciarono una città nel corso di 36, interminabili ore.
Oltre il muro
Giovedì 9 maggio, ore10
Non gli era mai capitato prima di allora. Nemmeno per colpa di uno scherzo di cattivo gusto fatto da qualche collega senza buon senso. Non gli era mai successo di trovarsi puntate contro un paio di armi da fuoco, così, all’improvviso, alle dieci del mattino, con in bocca ancora il sapore dell’ultimo caffè. Una Smith and Wesson e una Colt. Comparse di colpo, nascoste dalla porta socchiusa della sala di medicazione dell’infermeria, e dietro di loro un braccio teso. Nessun tremore. E uno sguardo che non promette niente di buono.
Il volto gli si contrae. Al brigadiere non importa ancora niente di sapere come e perché tre galeotti possono andarsene in giro per il carcere con un simile arsenale in mano sentendosi liberi di piantarlo in faccia ai primi malcapitati che incrociano sulla loro strada. Questa sarà una faccenda da chiarire dopo. Nell’immediato deve fare i conti, primo con tre detenuti in cerca di grane e, secondo, con mille recriminazioni che gli mordono il cervello, perché dentro di sé il brigadiere lo aveva sempre saputo che una cosa del genere sarebbe successa prima o poi. Se lo sentiva. Come una premonizione. Ma non era necessario essere maghi. Lo pensavano tutti dentro il carcere. Lo avevano scritto anche più volte nei loro verbali, che quei tre reclusi erano elementi pericolosi, e lo avevano pure dimostrato qualche mese prima durante la rivolta dei detenuti. Era gennaio. Giorni di tensione, i giorni delle lenzuola a penzolare fuori dalle inferriate per protesta, dello sciopero del mangiare, e dei tentativi di dar fuoco ai materassi. Ma nessuno, ai piani alti, aveva voluto ascoltarli, e chi aveva letto i verbali usciti dalla direzione aveva deciso per il no, che non c’era da preoccuparsi perché non esisteva alcun pericolo reale. Questioni di politica avevano commentato tra i corridoi, lui e i suoi colleghi. Roba più grande di loro, a cui competeva solo l’obbedienza.
Il brigadiere ha le labbra secche. Ed è inutile passarci sopra la lingua perché tutta la bocca si è improvvisamente inaridita. E sente un peso sul cuore da togliere il respiro. E pensare che quello era il suo giorno di riposo, ed era passato in ufficio solo per scrupolo, perché da qualche giorno nell’aria si agitava l’eco di strani movimenti tra i reclusi. Prova a rilassarsi. Prova a pensare che certe situazioni bisogna metterle in conto, perché fanno parte del mestiere, anche se non fa piacere ritrovarsi coinvolti.
Fa scorrere lo sguardo verso gli altri ostaggi. Un gruppo di sette secondini, sei insegnanti del corso geometri, il medico del carcere, e altri sei detenuti, quelli ricoverati nell’infermeria. Sono appoggiati alla vernice scrostata del corridoio che la direzione aveva già deciso di rinfrescare con una mano di tinteggiatura nuova usando un gruppo di detenuti scelti tra quelli più tranquilli e risparmiare così sui soldi della cassa. Li guarda in faccia, uno per uno, legge la comune tensione. Ma finora nessuno ha urlato, e nemmeno imprecato. Si conoscono tutti fra di loro da troppo tempo per temere il peggio. Sono convinti che si tratta solo di un incidente di percorso, dell’inizio di una nuova protesta portata all’estremo, e sono certi che si risolverà tutto in fretta.
“Ce l’avete con noi?” chiede il brigadiere rivolgendosi d’istinto ai tre, anche per dare un peso alla sua autorità.
“No” risponde uno di loro.
“E allora perché ci minacci?”
“Non vi sto minacciando”.
“E allora cosa stai facendo? Ci stai invitando a cena?”
“Vi sto tenendo sotto controllo”.
Lo sa bene il brigadiere che in quella specie di terra di nessuno l’unica regola che conta per davvero è il controllo. Tutti lo sanno. Serve a tracciare una linea netta tra chi sta al di qua e chi al di là della legge. Il brigadiere sa pure che il detenuto non ce l’ha con lui. Anzi. Sotto la sua scorza di malvivente c’è pure della stima. E’ per questo che il brigadiere pensa che forse non sarà difficile uscire dalla situazione che si è creata, perché in tutta la vicenda non c’è nulla di personale, ma solo ribellismo. Ovvero quello che lui ha sempre percepito nei lunghi discorsi in cui spesso finiscono per impegolarsi i detenuti, uno strano miscuglio di sindacalismo, bisogni individuali, solitudine e rabbia. Perché in galera la rabbia è come l’isteria, qualcosa di vischioso che appiccica tutto, e trasuda dai muri.
“Cosa volete?”
“Secondo te cosa vogliamo? Vogliamo andarcene via, perché vivere qui dentro è uno schifo… ti basta?”
Il brigadiere non ha bisogno di farselo ricordare, lo sa bene come si vive tra i vecchi bracci del carcere. Celle umide e fredde, scarafaggi, si mangia male e i reclusi si ammalano, poca igiene, troppe perquisizioni personali che surriscaldano l’ambiente. Ogni scusa è buona per i detenuti per rompersi la testa fra di loro, per regolare conti con una qualunque cosa affilata riescono a procurarsi per piantarlo in pancia o in una natica dell’avversario. E per infliggere del male anche a se stessi, e lasciare tracce del proprio sangue ovunque, sulle pareti, sulle lenzuola, sui pavimenti.
Ma questo non giustifica delle armi in pugno per risolvere i problemi. Da parte di nessuno. Men che meno di quei tre, che hanno la coscienza nera come la pece e una condanna da scontare ancora per un bel pezzo. A quel punto il brigadiere vorrebbe sbattere una mano sul piano del tavolino dove di solito si siede il medico per stendere i suoi rapporti, una bella manata liberatoria, giusto per mettere fine a quella sceneggiata che non porterà da nessuna parte, e per riequilibrare i ruoli, perché in un carcere non è così che funziona, la logica si è ribaltata, con dei carcerati con le armi in pugno e delle guardie che le mani le tengono alzate al cielo. Come se fossero loro i banditi in arresto.
E vorrebbe gridare in faccia ai tre:
“…sentite giovanotti… adesso basta scherzare… la vostra commedia l’avete fatta…” e pure qualcosa d’altro, qualcosa che gli sgorga fuori dallo stomaco, dal cuore, qualcosa che assomiglia a un miscuglio di fastidio, rabbia e logica.
Ma non può fare nulla di tutto questo, per colpa di quelle due pistola puntate contro. Non solo a lui ma anche agli altri. Non si sa mai. Pensa. Il nervosismo è sempre un brutto alleato, per chi sta di qua e al là del grilletto di un revolver. Quindi, meglio giocare di diplomazia. Senza calcare troppo la mano. Poi, caso mai, cercare di mettere in atto il piano di emergenza previsto dal regolamento in casi simili.
Guarda l’appuntato. Si fissano per qualche istante. Entrambi si aspettano qualcosa dall’altro come da se stessi. Sanno di avere le mani legate, e di non voler rischiare di combinare danni peggiori.
Per un istante si chiede anche perché quegli uomini stanno piantando su tutto quel casino per cercare di fuggire, quando lo sanno benissimo che la loro sarà una fuga senza speranza, un correre verso il nulla. E se anche ci riuscissero a mettere i piedi fuori dal penitenziario, sarebbe una fuga breve, braccati giorno e notte, perché la giustizia non si scorderà di loro e gli starà alle calcagna fin quando non si ritroveranno ancora una volta con le manette ai polsi.
Ma non sono fatti suoi quello che pretendono di fare i tre malavitosi. Lui si deve preoccupare di altro. Ed è così, un po’ deluso e un po’ inquieto, in cerca di una posizione più rilassata per quanto gli sia possibile rimanendo in piedi a una spanna dal muro, con uno dei tre ribelli che riesce solo a gridare in faccia a tutti di stare fermi, e di stare zitti, anche se nessuno degli ostaggi fa il minimo rumore. Che quasi nessuno fiata. E pur senza farsi prendere dallo sconforto, il brigadiere si lascia cullare leggermente sulle anche, come se fossero diventate improvvisamente il filo sottile che lega il mondo terreno a quello dove abitano i sogni. Quelli veri, quelli che addolciscono la vita, quelli che nutrono il cuore. Altro non si può concedere in questi istanti drammatici. Niente. Se non pensare. In maniera quasi vorticosa. Fino quasi a vederli, i suoi pensieri. Sempre quelli, quelli che lo portano al fianco di sua moglie, dei figli. Pensieri da toccare con la punta delle dita mentre escono fuori dalla testa per appoggiarsi al muro, e materializzarsi accanto a lui per ricordargli tutto ciò che è stata la sua vita fino ad allora.
Giovedì, ore 11
All’assistente sociale capitava spesso di essere distratta dal suo lavoro quotidiano per dover affrontare una qualche emergenza. Ma questo non la turbava per niente. Si era scelta quella professione come si scelgono con amore le cose importanti della vita. E un imprevisto non lo considerava per forza un qualcosa di negativo. Faceva parte dei suoi compiti, e lo affrontava ogni volta con passione e onestà. Quando esce dal suo ufficio in tribunale per raggiungere il Procuratore della Repubblica è a conoscenza solo delle poche cose che le hanno detto in fretta e furia al telefono: in carcere sta succedendo qualcosa di grave e i detenuti hanno chiesto la sua presenza.
Perché di lei si fidano.
Escono affiancati lei e il magistrato. In silenzio. Per strada si agita una lieve brezza che porta a tratti il profumo dei tigli. Un sole morbido scalda l’aria, ma in certi momenti graffia la pelle. E’ il segno che la primavera incomincia a diventare estate, e apre la porta alla calura afosa e alle zanzare.
Salgono tutti e due su una macchina di servizio e prendono la direzione del carcere Don Soria. Lei guarda fuori e si fa distrarre dallo scorrere lento delle vie di una città avvolta dalla sua solita glaciale discrezione, a volte sorridente, a volte maligna, una città divorata dalla nebbia invernale e sciolta dall’umidità bollente dell’estate. Una città, come tutte in quei giorni, con i muri tappezzati da manifesti di varie forze politiche che invitano a votare SI oppure NO al referendum per il divorzio che si consumerà la domenica successiva, 12 maggio. Chi lo vuole il divorzio vota no e chi non lo vuole vota si. A non tutti è ancora chiaro il perché. E’ la prima volta che si vota per un referendum, dopo quello del 46, per scegliere tra Monarchia e Repubblica. Ma in quel caso sembrava meno complicata la domanda. E di conseguenza anche la risposta. Lei sorride, perché quei dubbi se li sente porre quasi tutti i giorni da qualcuno poco avvezzo alle cose della politica.
La donna sa cosa sceglierà di votare, per poter dire la sua in piena coscienza su un tema sociale così importante. Ma adesso, per lei, è meglio ritornare alla realtà di quei minuti e concentrarsi su ciò che sta accadendo all’interno di un carcere piantato come un paletto nel cuore della città vecchia, separato dal resto del mondo da un lungo muro, una lunga linea di demarcazione che porta su di sé i segni del tempo e trasforma quel pezzo di terra recintata in una sorta di enclave, dove la vita è qualcosa d’altro, dove le regole non sono le stesse del vivere quotidiano. Una fetta di mondo guardato con sospetto, e disprezzo, capace di creare timore, ma che non si può fare a meno di ignorare, anche perché è distante appena un centinaio di passi dall’ospedale cittadino.
Fuori dal Don Soria le transenne impediscono l’accesso dalla piazza antistante e dalle strade adiacenti. Alcune Alfa della polizia pattugliano lentamente tutto attorno al muro di cinta, altre sono in sosta con i lampeggianti accesi ma silenziosi. Di fronte all’ingresso, un cellulare della penitenziaria. Dai finestrini filtra il contorno di una quindicina di agenti seduti all’interno. Una scena che non meraviglia chi passa da quelle parti, e che si ripropone spesso soprattutto dopo le dure proteste di gennaio fino all’arrivo, ad aprile, di una commissione ministeriale per prendere atto delle rivendicazioni dei detenuti.
Appena varcata la soglia del carcere la donna percepisce che la tensione viaggia a mille. Quella rivolta sembra la goccia che fa traboccare il vaso. Trancia i nervi di chi non è coinvolto direttamente.
“Siamo stanchi.” Le dice una guardia sottovoce mentre salgono le scale che portano all’ufficio della direzione, qualche metro dietro il magistrato. La conosce ormai da tempo e sa che le può confidare un malessere “Tutti i giorni c’è una grana e qui dentro non abbiamo certo a che fare con gente facile”.
“Sono questi tre.” Dice il direttore buttando le cartelle personali dei rivoltosi sulla scrivania, dopo aver stretto la mano ai nuovi arrivati. “Due sono armati di pistole, il terzo di coltello. Nelle borse pare che abbiano altre munizioni, cibo, e medicinali. Forse hanno intenzione di tirarla per le lunghe. Un bel guaio…” Resta in silenzio qualche istante, mentre il magistrato sfoglia rapidamente gli incartamenti, poi riprende “… hanno chiesto di parlare anche con il cappellano, ma non riusciamo a rintracciarlo”.
“Non mi pare che abbiamo a che fare con dei santi.” Il Procuratore chiude la cartellina mal celando i suoi timori nei tratti del viso. “Rapina a mano armata, omicidio, tentato omicidio… gente da prendere con le pinze. Comunque il fatto che abbiano chiesto la presenza dell’assistente sociale e del cappellano fa ben sperare. Andiamo a sentire cosa vogliono”.
E’ l’assistente sociale a rompere il silenzio mentre si dirigono verso il piano dell’infermeria:
“Potrei offrirmi io come ostaggio.” Dice, e il magistrato preso alla sprovvista non sa cosa rispondere. Nicchia. Potrebbe essere pericoloso. Tentenna. Ed è pure una bella responsabilità. Ma lei si sente tranquilla. Conosce quegli uomini da tempo, e crede di avere un buon ascendente su di loro. In fondo li lega un rapporto costruito di volta in volta con incontri mirati, e sa di poter mediare, di poter contribuire a risolvere la vicenda nel miglior modo possibile.
Il magistrato le promette di pensarci attentamente.
Ormai sono a pochi metri.
Il detenuto è dietro la porta a sbarre che separa l’ingresso del braccio infermeria dal resto del carcere. E’ armato. Mette le mani avanti e dice subito che non vuole parlare con un magistrato locale.
“Cerchiamo di essere ragionevoli e di non tirare troppo la corda.” Risponde il Procuratore. “Siete andati oltre il limite tollerabile, ma vogliamo risolvere questa faccenda in fretta perché nessuno si faccia del male”.
Ma l’altro insiste. Pretende di parlare con dei giornalisti, e vuole trattare solo con qualcuno che abbia l’autorità per dare subito quello che chiedono. Senza indecisioni.
Poi afferra la donna per un braccio. Una morsa che la sorprende e non le lascia via di scampo. Ma non oppone resistenza. Non serve.
Adesso è ostaggio anche lei. E al magistrato non resta che scendere le scale da solo, mentre, pochi minuti dopo, un colpo di pistola rompe l’eco del braccio infermeria. Senza danni. Solo una dimostrazione per dissolvere gli ultimi dubbi: le armi sono vere.
Giovedì, ore 15
Sono loro lo Stato. In carne e ossa. La legge e il suo braccio militare. Un alto magistrato, e un generale.
“E’ in atto un piano di evasione che, da dati confermati, coinvolge anche altre carceri italiane.” Sostiene il militare, seduto al tavolo dell’ufficio direzione del Don Soria, dove si è insediato un gruppo operativo con funzionari e ufficiali carcerari, della polizia e della Criminalpol “Forse alcuni detenuti pensano che in occasione delle ormai prossime votazioni lo Stato sarà impegnato su un altro fronte della sicurezza, e di poter avere buon gioco per creare disordini”.
Poi interviene il magistrato:
“Ho avuto un incontro con i rivoltosi, il secondo dopo quello di stamattina, e mi hanno consegnato questo comunicato …l’azione – vi leggo testualmente – è stata provocata dal comportamento irresponsabile del Governo che si ostina da anni a non concedere la riforma penitenziaria… poi ribadiscono la necessità di tornare a essere uomini liberi e chiedono un pulmino, di quelli delle linee di trasporto locali, lo vogliono vicino alla lavanderia, porte aperte e muso in avanti, verso l’uscita. Vogliono anche due poliziotti a fare da battistrada, e i semafori liberi in uscita dalla città. Saranno loro a dare ordine ai due motociclisti di allontanarsi quando lo riterranno opportuno, e dopo due, trecento chilometri lasceranno liberi gli ostaggi. Parlano anche di soldi, e minacciano di morte gli ostaggi se la nostra risposta sarà negativa. Insomma, si tratterebbe di un’azione suicida, come la definiscono loro. Naturalmente ci danno poco tempo per decidere”.
“Farneticazioni”. È il pensiero comune dei presenti.
“Lo Stato non tratta.” Il generale non usa mezzi termini. “Soprattutto in un momento in cui la sicurezza dello Stato stesso è in serio pericolo per il serpeggiare di un ribellismo sovversivo di stampo terroristico che si sta organizzando un po’ ovunque e che in questa zona ha già dato dimostrazioni di efferatezza con omicidi e sequestri di magistrati e dirigenti d’azienda”.
Linea dura, è la sua conclusione, e il magistrato concorda. Entrambi temono l’effetto domino per altri istituti di pena. Quindi, nessun ricatto, non si scende a compromessi. E occorre dimostrarlo subito a chi crede che sia sufficiente prendere un ostaggio per tornare a essere un uomo libero, alla faccia delle decisioni di un tribunale.
“Naturalmente,” rassicura il magistrato “qualunque tipo di intervento verrà messo in atto nelle prossime ore dovrà essere mirato a salvare il maggior numero possibile di ostaggi. Anche se l’arroganza dei rivoltosi dovrà fare i conti con il prestigio dello Stato”.
Quello Stato che, da fuori, è pronto a riprendersi un pezzo di Stato asserragliato oltre il muro.
Giovedì, ore 19.30
La fame incomincia a farsi sentire. Calano le ombre della sera e da quasi dodici ore nessuno ha più mangiato nulla. Il brigadiere non perde di vista l’assistente sociale. La conosce bene, e non si merita di vivere un’esperienza del genere, anche se le pare una donna serena e ben disposta a cercare un dialogo con i rivoltosi. E’ l’unica donna in mezzo a tutti uomini. E non vuole che le tre canaglie le manchino di rispetto. Dietro le fossette di un sorriso pallido nasconde la sua sofferenza, i suoi dubbi. Il dottore invece è in piedi a preparare i panini consegnati pochi minuti prima. A terra le strisce nere di tabacco bruciato delle mille sigarette fumate e schiacciate in quelle ore. I detenuti presi in ostaggio sembrano un tutt’uno con le pareti come se volessero prendere il più possibile le distanze dai loro compari, per non essere coinvolti in un gioco troppo rischioso e non dover pagare le conseguenze di gesti a loro estranei.
Tutto questo quando un sordo rumore di vetri in frantumi fa sussultare rapiti e rapitori.
D’istinto ognuno piega la testa verso il basso e porta le mani sopra la nuca a ripararsi da un nemico invisibile ma insidioso. Il dottore si accascia e crolla a terra come un sacco vuoto. Si pensa a un malore, ma nessuno riesce ad avvicinarsi a lui, perché subito il locale dell’infermeria si riempie di una nebbia leggera, invadente, che brucia gli occhi, la gola e i polmoni.
Lentamente tutto è invaso dal fumo dei gas lacrimogeni.
Colpi. Colpi di tosse. Colpi d’arma da fuoco. Colpi a ripetizione. Raffiche di mitra. Sibili, suoni secchi del piombo sull’acciaio, contro i muri, polvere nell’aria, La reazione è scomposta. Occhi che lacrimano, guance bagnate. Urla, oggetti che cadono, frastuono di brande che scorrono sul pavimento e oltre le quali cercare un rifugio a quell’improvvisa onda di fuoco.
Il commando di assaltatori è al piano. Sono una quindicina, accalcati nello spazio ristretto del pianerottolo. Gli ordini sono di superare la porta che immette nel lungo corridoio del braccio infermeria, e poi irrompere nella corsia grande, dove sono radunati ostaggi e rivoltosi. Sparano un colpo dopo l’altro al di là delle sbarre per coprire i militari che cercano di sfondare la porta. I minuti passano. Il fuoco cresce di intensità, ma la porta inferriata non cede.
“Andiamo sul fondo” urla un detenuto. Ma nel caos ognuno segue una propria strada. Il professore si sposta nella direzione opposta perdendo il senso dell’orientamento. Un colpo di pistola lo raggiunge, e cade a terra agonizzante. I detenuti rastrellano una seconda volta gli ostaggi frastornati e li fanno arretrare oltre la corsia piccola in fondo al braccio, dove riescono a infilarsi in uno stanzino. L’ostacolo cede troppo tardi. Nel breve lasso di tempo il brigadiere e un altro paio di ostaggi riescono a correre incontro agli assaltatori e, quando oltrepassano la porta della corsia, segnalano due corpi a terra entrambi feriti mortalmente al capo. Si fanno aiutare a sollevarli con cautela e li portano oltre l’inferriata. Poi il brigadiere fa segno agli assaltatori di arretrare, di non sparare più, ormai è tardi, urla che può essere troppo pericoloso perché sono tutti asserragliati, detenuti e ostaggi, nello stanzino dei gabinetti. Poi arretra anche lui. In silenzio. Non vuole ritorsioni contro gli ostaggi. Sono disarmati, inermi e spaventati. E i banditi degli assassini che conoscono il fatto loro. Uno scontro impari. Qualcosa d’istintivo gli dice che forse la sua presenza può ancora essere utile tra gli ostaggi che non fuori da quelle mura.
Venerdì, verso la fine
Le prime luci dell’alba allentano la tensione. Le ore della notte hanno stroncato le ultime energie, nell’attesa spasmodica di un nuovo, improvviso, e forse definitivo attacco dall’esterno. Ma non è successo, pensa il brigadiere, e con la luce non dovrebbe più succedere. Sono stati quindici minuti di inferno, quelli della sera prima, minuti che hanno lasciato il segno. Ma sono finiti. Pensa. Anche se non sa come stanno il dottore e il professore. Un breve lasso di tempo durante il quale qualcosa nel piano d’assalto non era andato per il verso giusto incocciando contro la resistenza della porta a sbarre dell’infermeria la cui funzione dovrebbe essere di evitare l’uscita ai detenuti non di impedire l’accesso alle forza dell’ordine. E’ andata così per via della situazione critica, pensa, e non vuol dare colpe a nessuno tra chi ha cercato di liberarli dalle mani di quei balordi. Forse, all’esterno, si immaginavano un’incursione rapida e indolore ma l’idea era fallita sul nascere.
Stanchezza e paura gli stringono lo stomaco come una morsa. La notte insonne gli fa bruciare gli occhi. Non è riuscito a pensare ad altro se non a quanto nella vita tutto sembra previsto, strutturato, ma poi arriva un giorno in cui la linea di confine tra la vita e la morte si fa più distinta. E allora capisci quanto quello stesso confine sia fragile. E quali sono i valori da difendere. Pensa a sua moglie, avvisata di quanto sta succedendo, magari seduta nell’ufficio del direttore, pallida in volto, a stropicciarsi le mani, a chiedersi perché, quella cosa orribile stava capitando proprio a lei. Speranza e disperazione che si giocano la partita. Il brigadiere sente tutto il dolore della moglie, quello non espresso, il panico che assale la donna al pensiero di quanto sta succedendo lontano dai suoi occhi. E allo stesso modo riconosce la sofferenza di tutti gli altri attorno a lui, stipati nel minuscolo locale, in una decina di metri quadri occupati anche di lavandini e dai sanitari, e capisce che ognuno si appiglia con le unghie alla speranza di una soluzione indolore, senza armi, senza violenza. Guarda i banditi che continuano a sintonizzarsi su vari canali di un piccolo transistor alla ricerca di qualche notizia fresca, e pensa che non tutto è ancora perduto. Se avessero voluto, in quei lunghi quindici minuti della sera prima, i rivoltosi avrebbero avuto tutto il tempo per massacrare una parte degli ostaggi, giusto per manifestare una prova di forza.
“Invece non l’hanno fatto” mormora a mezza voce, come stesse pregando. Non vuole più pensare alle bocche rotonde come biglie delle armi da fuoco che gli stanno a quattro dita dagli occhi, tra le mani dei banditi. Non vuole pensare al rischio di quell’acciaio lucido dalla forma esagonale che potrebbe dilatarsi per risucchiare la sua vita, o quella di qualcun altro, nel momento stesso in cui il dito di uno qualunque deciderà di esplodere un frammento minuscolo di piombo, grazie a tutta una logica fisica che lui ha imparato al corso, che è pure in grado di spiegarlo a quelli appena assunti, la camera di compressione, la scintilla, lo scoppio… ma che in realtà, in cuor suo, non ha mai capito, come un pezzetto d’acciaio che batte contro un altro pezzetto d’acciaio ancora più piccolo possa produrre simili conseguenze aiutato da una scintilla che non sarebbe in grado nemmeno di accendere una sigaretta.
Pensa che questo non deve succedere, che gli ostaggi, lì dentro, fra le quattro mura che hanno perso ogni colore e sono intrise dell’opacità della sofferenza, hanno il diritto di uscire indenni per vivere la loro vita, per non far soffrire i loro affetti. Sa di avere un compito. Deve farsi ascoltare, come può, con qualunque mezzo. Nella notte ha scritto un biglietto cercando di non farsi notare, buttando giù una parola dopo l’altra, con lentezza, nascondendo la mano e la penna, cogliendo l’occasione propizia per un’altra parola ancora. E via così. Nel biglietto dice che bisogna prendere tempo, che tutti sono stanchi, che la notte è stata lunga e inquietante, che i rivoltosi sono spaventati dal loro stesso fallimento e che cederanno, da un momento all’altro. Lo sa. Lo sente. Serve solo un po’ di pazienza. E invoca i suoi superiori: non c’è bisogno di sparare.
Appallottola quel pezzo di carta. Sale sulla tazza del gabinetto, quella proprio sotto una delle due bocche di lupo dello stanzino:
“Ho bisogno di aria”. Dice, e si spinge più in alto possibile a cercare nella frescura del primo mattino anche una sferzata di vitalità. Porta in alto il gomito. Fa finta di niente, e appena nota che i detenuti sono distratti, spinge la mano oltre la finestrella. Lascia cadere il biglietto, come il messaggio di un naufrago, certo che qualcuno lo raccoglierà, perché ci saranno mille e più occhi a tenere sotto controllo ogni più piccolo angolo di carcere. E qualcuno senz’altro noterà la sua manovra, e quella pallottola di carta, e non di piombo, cadere sul manto stradale.
Intanto continua a pensare. Per farsi forza. Per non cedere al sonno. Meglio un vortice nella testa per non farsi sconfiggere dallo sconforto. Pensa ai suoi figli, a cosa vorranno studiare, pensa a dove è nato, pensa alla luce e alle ciliegie che al suo paese maturano proprio in quei giorni. Un film che gli scorre rapido tra le pieghe della mente. Ricordi impressi a fuoco a fargli compagnia. Pensa che tutto andrà bene, pensa agli altri che se ne stanno zitti in quella situazione cascata loro tra capo e collo come una mannaia assassina. Pensa a quanta dignità c’è nel loro silenzio. Pensa, mentre il passare delle ore rende il clima interno sempre più caldo. Pensa a quei tre banditi convinti di essere i signorotti del castello, che credono di poter godere del diritto di vita e di morte sugli altri, sui sudditi, sui prigionieri. Belve in gabbia, a leccarsi le ferite, senza via d’uscita. Ma è certo che, all’esterno, invece qualcosa si muove. Non sono da soli, oltre il muro. Ne è sicuro perché di tanto in tanto, al di là della porta, qualcuno si fa sentire. Sono uomini di chiesa, giornalisti, politici, amministratori, che vogliono parlare, e si offrono in cambio degli ostaggi.
Poi, verso mezzogiorno, arriva la notizia: il pulmino è pronto, sono pronti pure i soldi. Due poliziotti e due giornalisti scorteranno la loro fuga. Le autorità sono disponibili a permettere l’evasione. Tutto è pronto, compreso lo sgombero della piazza per concedere l’uscita del pulmino senza alcun intoppo.
Sono pronti anche i banditi.
La tensione si attenua. L’odore della paura sembra mitigarsi. Qualcuno prova a sorridere. Il silenzio si trasforma in un leggero mormorio, fino a diventare concitazione quando i rivoltosi ordinano, in quei pochi metri quadri, uno scambio di abiti civili e divise tra gli ostaggi per ingannare i cecchini appostati:
“Abbiamo pochi metri da fare, tra l’uscita e il pulmino” dice uno dei reclusi “E sicuramente cercheranno di fregarci proprio lì…” e incominciano a legare con alcune garze il brigadiere e le altre guardie con le mani dietro la schiena, e a grappolo, fra di loro, tutti gli altri, poi stendono un lenzuolo da usare nel corridoio per coprire le teste durante la lenta marcia d’uscita. Vogliono creare dubbi, confusione. Giocare d’astuzia, creare caos nel caos. Per impedire agli assaltatori di agire…
…sono le 17, quando i banditi socchiudono la porta dello stanzino pronti a muovere i primi passi verso la libertà. Sono sempre le 17, quando un candelotto lacrimogeno rotola a terra, verso la porta socchiusa, corre come un pallone calciato male, ed esplode impennandosi verso l’alto, sollevando una coltre di nebbia impenetrabile tra lo stanzino e il corridoio. Sono ancora le 17 di venerdì 10 maggio1974 quando esplodono i primi colpi d’arma da fuoco. Fino a creare un muro. Un muro di fuoco. Un altro muro. Ancora. Come il giorno prima. Tutto improvviso. Inaspettato. Gli assaltatori restano immobili, non fanno un passo in avanti, mentre la porta dello stanzino si richiude, e da quel momento, al suo interno, si spalanca la bocca dell’inferno pronta a inghiottire la vita di sette persone e a nutrire se stesso con il profondo dolore dei vivi.
Nota
L’inchiesta che ne seguì stabilirà che il detenuto Cesare Concu rimase ucciso nello scontro con le forze dell’ordine dopo essersi reso colpevole dell’omicidio del dottor Roberto Gandolfi, che il detenuto Domenico Di Bona si suicidò dopo l’uccisione del brigadiere Gennaro Cantiello, dell’appuntato Sebastiano Gaeta e dell’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola. Il terzo detenuto, Everardo Levrero, si arrese dopo aver finto di essere morto. Il professor Luigi Campi, colpito a morte dal detenuto Di Bona, morirà a distanza di qualche giorno. Molti i dubbi e gli interrogativi rimasti a tutt’oggi senza una risposta chiara soprattutto in relazione all’epilogo che mise in luce un eccesso di forza da parte dello Stato. L’unica certezza indiscutibile è la rapidità con cui un’intera città ha voluto calare la saracinesca su un evento di tale portata drammatica.