Avete presente quei romanzi, così ben scritti, in grado di darvi la sensazione di poter vivere nei panni del protagonista? Quelle sensazioni, sottili e intime, che sembra appartengano solo a voi?
Vi siete mai trovati dopo cena in un bar di periferia, tra i clienti abituali, a bere un ultimo bicchierino e a seguire qualche colpo del giocatore di biliardo silenzioso, sempre presente alla solita ora?
Bene. Se vi è capitato non potrete non aver fatto caso a quel tizio con la giacca e la cravatta, volontariamente spettatore, che prendeva appunti.
Magari lo avrete intravisto accanto a voi, mentre facevate la coda per entrare nel cinema. Forse persino a teatro, sul palco o in galleria, con quella smorfia scanzonata e sfuggente.
Seduto ad un tavolo a bere vino, discutendo con un tizio elegante alla sua destra.
Nella corsia di un ospedale, con i palmi delle mani sulle orecchie per non dover ascoltare.
Forse gli avete persino rivolto la parola e lui si è presentato come “”Signor G”.
E, in un modo o nell’altro, ha parlato anche di voi in uno dei suoi spettacoli.
Abbiamo raggiunto Dalia, sua figlia, e le abbiamo rivolto qualche domanda.
Lei, donna esperta di comunicazione e affabile testimone di un genio, ha sfogliato i suoi ricordi e ci ha raccontato chi era quell’uomo.
Giorgio Gaber, questo il nome del tizio in giacca e cravatta, non era un uomo qualunque.
Era, anzi è, l’anima di un paese che non c’è più. Un paese che vive sulle apparenze, sulle mode. Un paese che dimentica il rinascimento e gli antichi ideali. Che si lamenta della vita sgambettando in discoteca. Che strumentalizza la bontà per vincere le elezioni.
Un paese in cui il Riccardo arranca ancora, in un bar di periferia, per cercare la palla giusta da mettere in buca.
Per fortuna, il Signor G, è ancora accanto a lui a suggerirgliela.
La prima domanda è d’obbligo: com’era Giorgio come padre?
Molto, molto, divertente.
con lui ho riso come non ho mai più riso nella vita.
Ad una presentazione di un disco di De Gregori alla Feltrinelli, Panariello (che presentava la serata) disse al cantautore che Milano aveva probabilmente, come massimi rappresentanti della musica “alta”, Jannacci e Gaber. Lui ammise la cosa e poi parlò quasi esclusivamente di Jannacci. Giunti a casa, io e mia moglie ci siamo interrogati sul perché uno come Gaber fosse spesso visto da troppa gente, compresi colleghi illustri, in maniera non abbastanza proporzionata al suo reale valore. Mia moglie sostenne che Gaber era troppo “alto”, troppo “politico” e troppo poco “ruffiano” per un sacco di gente, compreso probabilmente De Gregori. Era, insomma, un cantautore meno accessibile di Jannacci, Guccini, o lo stesso De Gregori, appunto.
Che ne pensi?
Probabilmente lo conosce meno in termini artistici. Come sai mio padre non faceva dischi ma spettacoli teatrali, e non tutti li hanno visti. La sua attività artistica, quindi, è rimasta forse più nascosta di quella del suo amico fraterno Enzo che, invece, ha realizzato molti dischi e ha maggiormente frequentato i mass media, la tv… da cui mio padre ha scelto di rimanere lontano.
C’è un pezzo di una canzone, una delle ultime, di Giorgio che dice: “la cultura per le masse è un’idiozia. La fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia”.
Qual è il tuo punto di vista?
Non esiste una cultura per le masse. La cultura deve rimanere per pochi altrimenti si trasforma in qualcosa di diverso che corrisponde troppo spesso ad una moda.
C’è una battuta di Daniele Luttazzi che dice – Mi hanno scritto una lettera chiedendomi “Cos’è la destra e cos’è la sinistra?”. Beh, questa in realtà è una domanda di destra. Se invece prima eri di sinistra e poi hai cominciato a porti domande del genere, significa una sola cosa: hai sposato Ombretta Colli. –
Sarà stato uno scherzo. La canzone è stata scritta molto prima che mia madre pensasse di fare politica.
Mio padre non se l’è mai presa con chi ironizzava su questa faccenda che attiene decisamente a quelli che, legittimamente, potrebbero essere definiti “fatti suoi”.
Però, con chi si ostinava a non considerare che due persone potessero amarsi e rispettarsi pur pensandola in modo differente se la prendeva, e MOLTO. Lo considerava un grave vizio di questo tempo. Un segno di profonda inciviltà.
E a chi gli ha rimproverato le scelte di mia madre, a chi gli ha chiesto perché non la lasciasse, non ha mai degnato di una risposta.
Sinceramente credo che uno dei punti più alti della tv italiana degli ultimi trent’anni sia stata la tavolata allestita durante la trasmissione di Celentano del 2001 con lo stesso Adriano, Gaber, Fo, Albanese e poi Jannacci.
Che ricordi hai di quella partecipazione di tuo padre?
Fu bellissimo. Ma avevo tanta ansia. Mio papà non stava bene e rivedere quelle immagini, ancora oggi, mi dà un po’ di sofferenza.
Riconosco che, però, parliamo di qualcosa di travolgente. Unico.
Il “gruppo” di amici stretti e colleghi di Giorgio sembra qualcosa di tangibile e indivisibile, nonostante tutto. Mi riferisco sia al rapporto quasi fraterno che ebbe con Jannacci, sia con il vostro rapporto attuale con la famiglia Luporini, che sembra un proseguimento di quel legame.
Si con Jannacci erano proprio fratelli. Era un godimento vederli ridere insieme.
Con Sandro è stata una fortissima amicizia ma anche un sodalizio di lavoro indissolubile. Il loro era proprio un metodo di lavoro unico. Costruito sulla personalità dei due e da cui sono nate tutte le cose che sai.
Si incontravano d’estate, parlavano per ore, settimane, per più di un mese. Poi a luglio iniziavano a scrivere. Ad agosto perfezionavano le cose e nel frattempo G pensava alle musiche. Poi, a settembre. metteva tutto in prova sul palco mentre Sandro restava a Viareggio in attesa del maggio successivo quando finiva la tournée.
Qual è la canzone di tuo padre alla quale sei più legata e perché?
Non insegnate ai bambini. Erano a tiro i miei figli e in parte è legata anche a loro.
Quando ero piccola ero pazza di Goganga.
Il Teatro Canzone di tuo padre, almeno in Italia, era qualcosa di abbastanza rivoluzionario. E’ vero, l’avevano fatto anche i Gufi di Svampa ad esempio, ma per quel che riguarda la musica “impegnata” non ricordo niente di simile o quasi. Perché, per quasi tutta la sua carriera artistica, decise di non registrare album in studio ma esclusivamente dei live dove proponeva inediti?
Perché non credeva alla comunicazione attraverso i dischi. Considerava interessante e quindi urgente solo il QUI E ORA che solo il teatro permette. Per non buttare via tutto registrava l’audio degli spettacoli per averne documentazione. Ma per lui si trattava solo di una testimonianza perché quello che aveva voglia di dire lo diceva in teatro e basta. Sai che non faceva neanche le interviste… (e, giustamente, io ho cominciato a fare proprio questo di lavoro…).
Da ultimo, quando il lungo tour teatrale non era più una possibilità fisica, ha scelto di fare un disco per varie pressioni, anche mie. E si è abbastanza divertito. Quando è andato in testa alla classifica rideva come un matto.
Giorgio Gaber e Sandro Luporini
Tu sei una grande appassionata di musica italiana. Seppure, almeno secondo il sottoscritto, nel panorama discografico attuale ci siano ben pochi cantautori destinati a lasciare il segno, conosci qualcuno, qualche giovane magari, che possa avere la possibilità di diventare l’erede dello stesso Giorgio, di Guccini o di De André?
No dai, non è neanche giusto metterla così. E’ tutto diverso, sono diversi i tempi, le cose…
Come chiedersi chi è l’erede di Leopardi….Non esiste proprio!
Però ci sono tante cose belle che lasceranno il segno. Di questo sono convinta.
Dalia Gaberscik ha socchiuso, infine, il suo taccuino.
Avremmo voluto sbirciarvi ancor meglio all’interno ma abbiamo scelto di salutarla e di riservarle un ultimo pensiero, un po’ per non abusare della sua seppur infinita pazienza e un po’ per permetterle di conservare, tra le pagine giustamente nascoste, l’immagine di un uomo meravigliosamente imperfetto.
Grazie Dalia, per averci concesso di entrare per qualche riga nel tuo mondo.
E grazie per averci contagiato per qualche minuto con la “magia della vita” che ti hanno insegnato.
Alex Rebatto