Quando le mani di un mafioso si stringono al collo di un ragazzino, è l’11 gennaio 1996. La vittima si chiama Giuseppe Di Matteo , ha quindici anni. E con uno dei suoi carnefici,Giovanni Brusca detto u verru, il porco, ha giocato a lungo nella sua casa di Altofonte, come fosse un fratello maggiore. Ma molto tempo prima. Da 779 giorni quel suo amico, assai più grande, lo tiene prigioniero. Sono più di due anni. L’adolescenza passata tra i carcerieri.
È cominciato tutto in un maneggio, dove Giuseppe Di Matteo andava a cavallo, sognando di diventare un fantino. È lì che il 23 novembre 1993 si è presentato un gruppo di poliziotti della Dia. «Ti portiamo da tuo padre» gli dicono. «Me patri, sangu mio!» risponde il bimbo entusiasta. Ma quelli, scopre presto, non sono della Dia. Tantomeno si tratta di poliziotti. Sono invece mafiosi travestiti da agenti, e lo stanno portando via per sempre.
Vogliono usarlo come arma di ricatto. Il padre di Giuseppe infatti, si chiama Santino, detto Mezzanasca. Ed è uno dei primi pentiti dell’ala corleonese. Sta raccontando ai magistrati cosa è successo a Capaci, quando il 23 maggio 1992, il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta sono saltati per aria. E Brusca è l’uomo che li ha fatti esplodere. Tenendone in pugno il figlio, i boss pensano così di farlo ritrattare. «L’abbiamo legato come un animale – dirà in aula molti anni più tardi il pentito Gaspare Spatuzza- e l’abbiamo lasciato nel cassone di un furgoncino. Lui piangeva, siamo tornati indietro perchè ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo».
Giovanni Brusca presto libero?- LO SPECIALE
La famiglia Di Matteo, che ignora tutto, lo cerca per ospedali e in giro, fino a quando, il primo dicembre, giunge a casa un bigliettino con scritto «Tappaci la bocca». Insieme ci sono due foto di Giuseppe che tiene in mano un quotidiano di due giorni prima: è chiaro ora che è stato sequestrato. E che il motivo sta nella collaborazione con la giustizia del padre. Quando finalmente la madre ne denuncia la scomparsa, a casa del nonno arriva in serata una seconda missiva, piuttosto esplicita: «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie». Santino deve fermarsi, tacere. Fanno capire che ne va della vita di Giuseppe. Il pentito sa che i Corleonesi sono diversi dalla mafia assassina ma del “niente donne e niente bambini”, tramandata dai romanzi di Mario Puzo. Sa che quella è la mafia che ha cancellato intere famiglie e i parenti più lontani di altri collaboratori di giustizia, da Buscetta a Marino Mannoia fino a Totuccio Contorno, facendo strage di innocenti in ogni dove. Non c’è pietà, non c’è nulla.
Visita la sezione Underground di Gqitalia- GUARDA
Ma, per quanto angosciato, Santino prosegue la sua collaborazione. Prova anche a cercarlo, invano. La prigionia va avanti a lungo. Per tanto, tantissimo tempo, finchè arriva la condanna per Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo. L’ira sale.
Giuseppe viene strangolato con una corda. E sciolto nell’acido. Sono in tre: Vincenzo Chiodo, che gli stringe una corda intorno al collo; Enzo Salvatore Brusca, fratello minore del boss, che lo tiene per le braccia; Giuseppe Monticciolo, che lo ferma per le gambe e mentre muore gli dice: «Mi dispiace, ma tuo papà ha fatto il cornuto».
Per il delitto più infame di Cosa Nostra sono stati comminati plurimi ergastoli. Ma non per loro. Diventati tutti collaboratori di giustizia, stando a notizie di stampa, Monticciolo sarebbe andato ai domiciliari cinque anni dopo essere entrato in carcere e vivrebbe in località segreta. Enzo Brusca sarebbe finito ai domiciliari fin dal 2003. Stesso destino fuori dalle sbarre avrebbe avuto Chido: di anni ne doveva scontare solo 17. Quanto al mandante, Giovanni Brusca, 150 omicidi alle spalle, l’uomo che sterminò Giovanni Falcone e la sua scorta, continua a godere di permessi premio, feste comandate comprese. Sarà libero entro il 2020.
Ha detto al settimanale Oggi Nicola Di Matteo, fratello minore di Giuseppe: «Non perdonerò mai mio padre. Se Giuseppe non c’è più è colpa sua. E dei suoi amici mafiosi. Mio padre fu il primo a parlare della strage di Capaci. Parlò per salvarsi. E non si preoccupò di quello che avrebbero potuto fare alla sua famiglia. Mio fratello è stato tenuto prigioniero per 779 giorni, è stato spostato da un posto all’altro, legato mani e piedi. Per colpa di mio padre e dei suoi amici. Se non avessero preso mio fratello avrebbero preso me, avrebbero anche potuto ammazzarci entrambi. Ma questo mio padre non lo capisce, non lo capirà mai. Lui è responsabile quanto gli altri della morte di Giuseppe».
Edoardo Montolli per Gqitalia.it
Tutti i libri di Edoardo Montolli – GUARDA
Il boia di Edoardo Montolli su Kindle – GUARDA