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Sia Eutanasia

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“Prima che il male mi divori vado in Svizzera a morire.”
Quanti di noi, dopo aver visto con i propri occhi la malattia marchiare e stritolare i nostri cari, non hanno pensato a quanto potesse essere dignitosa una frase del genere?
Lo scorso 16 dicembre, dopo averlo annunciato pubblicamente, la militante radicale Dominique Velati (infermiera cinquantanovenne di Borgomanero) ha autonomamente deciso di smettere di lottare.
Marco Cappato, dei radicali, si è autodenunciato dai carabinieri come colpevole di “disobbedienza civile” per aver supportato la povera Dominique nell’ultimo viaggio.
Il ministro della salute Beatrice Lorenzin ha commentato:
“Io penso che bisognerebbe aiutare queste persone a trovare nella vita, anche nella malattia, la propria dignità e la speranza.”
Ricordiamo ovviamente che, per il codice penale, chiunque agevoli il suicidio in qualsiasi maniera è punibile con la reclusione fino a 12 anni.
Cappato, da par suo, ha snocciolato le cifre:
Il costo per l’eutanasia assistita in Svizzera (dove il reato non sussiste) è di dodicimila euro.
In un comunicato del 14 dicembre, Dominique ha rilasciato la sua ultima dichiarazione:
“Ho scelto di andare in Svizzera perché in Italia non c’è una legge sull’eutanasia. Il più grande freno sono gli stessi cittadini, che si autolimitano nell’affermare un proprio diritto. Non temo le critiche, ma se il mio gesto farà ragionare e pensare, ciò sarà positivo. Per questo ho reso pubblica la mia decisione.”
Mina Welby, vedova di Piergiorgio, è intervenuta ovviamente a sostegno aggiungendo:
“Mio marito avrebbe voluto morire a casa sua, senza dover espatriare.”

Questi sono i fatti.
Aridi, impalpabili. Cifre e leggi vomitate sulle pagine dei giornali per poter dare un nome dignitoso alla morte.
Personalmente, per esperienza, non posso che comprendere e sostenere la causa di Mina Welby, di Dominique, di Cappato e di tutti coloro che credono debba esistere un limite alla moralità da parrocchia, alla sirena del pubblico candore pseudoreligioso.
Ho visto mio padre a cinquantotto anni, un metro e 76 per 35 chili, seduto in bagno tremante davanti ad una stufetta accesa puntata addosso per sopportare il freddo della malattia con lo sguardo perso e un ultimo barcollante sorriso di rassicurazione.
L’ho visto vagare per ospedali con il cancro che lo divorava veloce come le fiamme in un fienile e una penna in una mano con la quale scrivere:
“Vi prego, datemi una pillola conclusiva.”
Ho sopportato la vista di un uomo sottile come un filo d’erba con due bende sugli occhi e le labbra spalancate in un ultimo grido di sconfitta.
Gli ho sorriso, o almeno ci ho provato, appoggiato al bordo del letto. Eravamo in due in quella stanza, e per la prima volta mi sono sentito solo.
“Alla fine ce l’hai fatta a scappare da qua” ho detto voltandomi verso la finestra.
Non avevo davanti l’uomo duro e orgoglioso che conoscevo.
Ma un uomo sconfitto dalla malattia e, soprattutto, dallo Stato.

 

Alex Rebatto

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Alex Rebatto

Alex Rebatto, classe 1979. Ha collaborato nei limiti della legalità con Renato Vallanzasca ed è stato coautore del romanzo biografico “Francis”, sulle gesta del boss della malavita Francis Turatello (Milieu editore), giunto alla quarta ristampa. Ha pubblicato il romanzo “Nonostante Tutto” che ha scalato per mesi le classifiche Amazon. Per Algama ha pubblicato il noir "2084- Qualcosa in cui credere"

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