Volere è potere. «Quando mi chiedono se lo Stato può vincere sulle mafie la mia risposta è sì. Se lo vuole», dice il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. La domanda è: lo vuole veramente?
La risposta si legge nei fatti di ‘ndrangheta degli ultimi giorni. A Guidonia, nel Lazio, si scopre che la cosca dei Giorgi di San Luca spacciava grazie alle direttive che il boss Giovanni impartiva dal carcere attraverso dei pizzini, senza controllo. Uno degli indagati diceva spesso «La razza mia pari n’davi, supa nun n’davi» («La mia razza, la mia famiglia ne ha altre di pari importanza, di razza superiore non ce ne ha», nda). In un’altra operazione è il capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho a dire che alcuni appartenenti infedeli alle forze dell’ordine hanno permesso a un indagato di ’ndrangheta di scoprire la telecamera-microspia che da due mesi consentiva le intercettazioni ambientali in casa sua. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Presto andrà alla sbarra un’avvocata accusata di aver manipolato alcuni pentiti di ‘ndrangheta per screditare Nino Lo Giudice, un altro pentito che accusa i magistrati Alberto Cisterna e Franco Mollace di fare il gioco delle cosche, con l’aiuto di alcuni giornalisti vicini agli stessi magistrati. La verità è un orpello in questa vicenda, perché comunque vada a perderci è lo Stato, la libertà d’informazione, lo strumento dei collaboratori di giustizia. Ci sono altri magistrati che da anni non depositano diverse sentenze, favorendo la prescrizione e negando la stessa giustizia.
E poi ci si domanda perché la mafia non ammazzi più. Che bisogno c’è? I morti fanno rumore e il sangue attira gli sbirri e i giornalisti. Ma non bisogna pensare che la «strategia di sommersione» per bypassare «l’attenzione di media, magistratura e opinione pubblica» significhi – come sottolinea il capo della Dia – che la ‘ndrangheta abbia «rinunciato al controllo militare del territorio», soprattutto in Calabria. E non condivido nemmeno l’equazione del presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi «Le mafie sparano meno rispetto al passato perché trovano più consensi, più acquiescenza in una società più disponibile ad interloquire con i poteri mafiosi». Il suo «Piano annuale per la lotta alle mafie» che augura «assieme a un maggiore coordinamento tra tutte le istituzioni» sono ricette che non servivano neanche trent’anni fa. Se il medico scambia un tumore per un raffreddore e lo cura con l’aspirina o il medico è scarso. Ma se la ‘ndrangheta lavora per conto dello Stato, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi sul caso Moro di cui avevo parlato qui, allora si capiscono tante cose.
E la politica? Prendete il premier Matteo Renzi, ad esempio. Sul palco della Leopolda ha portato una ragazza spacciandola per il futuro del Pd calabrese e come simbolo della resistenza a Platì, senza amministrazione da più di dieci anni. Peccato che, come riferiscono alcuni testimoni a un settimanale calabrese dopo una riunione di facciata il Pd a Platì sia sparito. E la Salerno-Reggio Calabria, il cui completamento potrebbe finalmente rilanciare la Calabria assieme al Ponte sullo Stretto, è diventata argomento di puro cazzeggio («Sulla Salerno-Reggio Calabria ho detto a Graziano Delrio che se non la risolve lo guido io fin lì», ha detto Renzi sempre alla Leopolda).
La Chiesa, che pure qualche peccatuccio di connivenza con la ‘ndrangheta lo ha confessato, la sua scomunica ai boss mafiosi l’ha fatta da tempo. E nell’anno del Giubileo ha anche teso la mano: «Fratelli ‘ndranghetisti – ha detto il vescovo di Reggio Calabria Giuseppe Morosini – sappiamo come i vostri loschi affari economici e criminali tengano sotto scacco la nostra Regione e la nostra città: Dio vi offre l’occasione di mollare la presa che avete sulla nostra vita sociale, economica e politica. Sappiatene approfittare…». Forse i boss hanno solo paura del buon Dio. Forse.
Felice Manti per blog.ilgiornale.it
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