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L’occhio del soldato – Un racconto su piazza Fontana

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Dopo quasi mezzo secolo, l’occhio del soldato riflette ancora il mistero della strage di piazza Fontana

 

“Secondo me lei ne sa qualcosa di tutta questa faccenda.” La butto lì seminascosto dal giornale aperto.

“Parla con me?” il taxista risponde e mette la freccia per svoltare a sinistra. Scala marcia e la Giulia spande nell’aria un rumore secco.

“Si, credo che lei sia l’unico ad aver visto bene in faccia chi ha messo la bomba dentro la banca.”

Mi aspetto una reazione che invece non arriva. L’autista imbocca il viale nella corsia riservata, senza un sussulto, senza una smorfia. E’ freddo come l’aria tagliente di questi giorni. Ma sono sicuro di aver colpito nel segno perché stringe il volante fino a farsi diventare bianche le nocche delle dita.

Lo vedo riflesso nello specchietto retrovisore.

Mi sembra un brav’uomo, dalla faccia anonima e onesta, con le guance molli scavate da una ragnatela fitta di piccole rughe, un omone senza la stoffa dell’eroe che tira a campare guidando tutto il giorno. Si porta addosso l’odore di minestrone riscaldato, il gusto di una mela dopo cena, con le maniche della camicia rimboccate a bere l’ultimo goccio di vino prima di sedersi di fronte alla televisione, distratto dalle chiacchiere di una moglie grassa come lui che gli sciabatta attorno pettegolando dei vicini. Uno come tanti, con la voglia di comperarsi due stanze più servizi in una palazzina nuova, attento a difendere la calvizie con una coppoletta a quadri beige, e la sciarpetta a croce sotto il cappotto.

Poi si rianima, mi sbircia guardingo, incredulo, spaventato. Per lui sono l’intruso che spezza l’ordine dei suoi passi, una presenza fastidiosa come un acaro della rogna. Faccio finta di niente, complice il giornale che ho davanti. Se fossi saggio dovrei dirgli che voglio scendere, pagare, lasciargli la mancia, andarmene a piedi fino al giornale, e continuare con la solita cronaca di quartiere, pezzi quasi assonnati, che escono ormai da soli da una penna abituata alle stesse parole, per sopravvivere con un mestiere che non mi farà mai ricco né famoso. Non dovrei ficcare il naso in una faccenda che sembra più grossa di noi due e di sua moglie messi insieme. Questa volta non è solo cronaca di malavita, c’è qualcosa in più, qualcosa di tragicamente diverso. Lo si capisce anche solo annusando l’aria in città.

“Cosa vuole da me? – la sua voce si sovrappone al battere ritmico e ossessivo del tassametro.”

“Niente. Solo fare quattro chiacchiere in amicizia.”

“Noi non siamo amici.”

“I tassisti chiacchierano sempre volentieri con i loro clienti.”

“Questa balla chi gliel’ha raccontata?”

Torna il silenzio, i luoghi comuni non aiutano a sostenere il discorso. Poi la sosta al semaforo.

“Chi è lei?” nella sua voce c’è più calore. Forse più coraggio.

“Un cliente da accompagnare a casa.”

“Sarà mica un poliziotto?”

“Perché ho l’aria del questurino?”

“No. Mi sembra dei nostri, non ha l’accento della bassa. Allora?”

Sospiro. “Un giornalista.”

Al verde il taxista scivola lento nel traffico, rimbalza sull’acciottolato e sui binari dei tram. La gente scorre veloce sui marciapiedi, con la befana appiccicata alle vetrine dei negozi.

La città vive. A modo suo, ma vive, anche se spaccata in due.

Un’anima più metodica e conservatrice, pronta a chiudere il ciclo delle feste, un’altra, più intellettuale e ribelle, si dichiara capace di portare la rivoluzione rovesciando nelle piazze studenti, operai, slogan e bandiere rosse. Il solo tratto comune sono i morti del dicembre scorso che pesano increduli e imbarazzati sui sentimenti e sulle chiacchiere di tutti quanti.

“Forse sono stato un po’ brusco – dico buttando il giornale sul sedile accanto – ma credo che l’attentatore in banca abbia viaggiato su questo taxi.”

Il taxista mette la freccia e accosta con una sterzata brusca.

“Scenda subito. – mi dice – E non si faccia più vedere.”

“Non sia sciocco, come l’ho trovata io la troverà anche la polizia.”

“Io non c’entro niente.”

“Io l’ho vista. – Gli dico e lui si gira verso di me con occhi increduli – Quando il tipo è sceso dal suo taxi, lei è ripartito, era arrabbiato o no? se lo ricorda?”

“E allora?”

“Io ero a piedi e lei mi ha tagliato la strada. L’ho mandata a quel paese. Ho preso il suo numero di targa. – mi interrompo per un istante – Però le devo anche la vita.”

Lui reagisce corrugando la fronte.

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“Ero così fuori di me per colpa sua che sono passato davanti alla banca e ho tirato dritto!”

E così non sono finito là dentro a pagare l’affitto e a farmi dilaniare dall’esplosione: salvato da un anonimo taxista che stava per spaccarmi le ginocchia con la sua Giulia. Ricostruendo i tempi dell’attentato mi sono ricordato dell’episodio, ho visualizzato la schiena del cliente, il cappotto marrone, e la borsa che portava con se. E avevo ancora il numero di targa.

“Lei è l’unico ad averlo visto bene in faccia, magari gli ha parlato come adesso sta parlando con me.”

“La smetta.” Replica piano.

“Solo lei può identificarlo.”

“La polizia ha già trovato il colpevole.” Dice senza convinzione.

“Si sono buttati sulle tracce di un anarchico, che è pure volato giù dalla finestra e non si capisce neanche come abbia fatto – parlo quasi mangiandomi le parole – Ma sono in molti a non credere alla favola dell’anarchico bombarolo. Sono finiti i tempi del re! E quando cambieranno direzione, scoveranno subito lei e il suo taxi.”

“Mi dia retta giovanotto, lasci perdere. Quelli sono tutti d’accordo.”

“D’accordo?”

“E’ tutto un minestrone… c’è di mezzo la politica.”

“E lei come lo sa?”

“Io non so niente, sono solo un taxista.”

“Però può dare una mano a scoprire la verità.”

“Ma quale verità vuole scoprire. – Alza una mano per farmi tacere – Lasci fare a chi prende lo stipendio per queste cose. Sono troppo grosse per gente come noi.”

E’ rosso in viso, e negli occhi sembra accumularsi tutta l’energia del suo cuore pronto a scoppiare da un momento all’altro.

“Tu non l’hai fatta la guerra, a proposito com’è che ti chiami?”

“Enrico”

“Enrico, io invece la guerra l’ho fatta, e sai cosa ti dico. Che quello che ha messo la bomba non è matto. I matti hanno un’altra faccia, li vedi lontano un chilometro, te lo dico io. Ma lo sai cos’ho imparato in guerra?”

“No.”

“Te la spiega uno che non ha mica studiato tanto. Ho imparato a guardare i soldati negli occhi. – e pesa le parole, una per una, come un presentatore della televisione –  E quello che ho portato in giro io ha gli occhi del soldato. Glieli ho visti bene. Ma non del disgraziato che rischia la pelle con la divisa strappata, e mangia topi e fango. Non so neanche bene come spiegarti. Ma dentro quegli occhi c’era un’ombra. Quello è uno che ci campa coi morti e con le bombe, te lo dico io. Mica come noi che aspettiamo la paga a fine mese e ci viene il cagotto se non abbiamo i soldi per pagare la rata del divano.”

Ritorna a guardare la strada, e con la punta delle dita accarezza l’immaginetta metallica della madonnina di Lourdes appiccicata con una calamita al cruscotto.

“Dietro uno così ci sono i pezzi grossi! Scendi, e vai a casa con il tram, che questa corsa la pago io.”

“Allora ha già deciso?”

“Ci penso! tanto sai dove trovarmi.”

Apro la portiera e metto un piede fuori. Di colpo i vetri della macchina esplodono sulle nostre teste come una pioggia tagliente. Istintivamente mi piego e mi raggomitolo tra l’auto e il marciapiede coprendomi la faccia con le mani. Il boato assorda. Arrivano altri colpi, sono più vicini, e nell’aria c’è odore di bruciato e urla di gente che corre. Una fiammata mi penetra la schiena, mi irrigidisco. Non ho più fiato. Poi il freddo…

 

…apro gli occhi, e la luce bianca mi ferisce. Nelle orecchie ho il rantolo del mio stesso respiro. I polmoni sono due sacche asciutte. Vedo i contorni delle cose sfocati. Sono steso in un letto. Provo a muovermi. Ho nausea. La prima cosa che faccio è ripetere il mio nome in testa e la data di nascita, come quando ero svenuto da ragazzo giocando a pallone. Percepisco una presenza. E’ un’infermiera che si avvicina. I tratti del suo viso sono sdoppiati. Sistema la flebo. Poi si allontana. La intravedo vicino alla porta con un paio di uomini, e la sento che dice: …solo cinque minuti. I due si avvicinano. Uno si appoggia alla sponda del letto.

“Ti sei svegliato?” – e agita una mano a mezz’aria come a scacciare una mosca fastidiosa. E’ vestito con un cappotto marrone.

“Ehi…” insiste. Vedo i suoi occhi incastonati in un volto sfocato. – dobbiamo solo farti un paio di domande.”

Sono scampato alla morte dentro la banca, e pure nel taxi. Forse le sto andando incontro una terza volta. Sarà l’ultima? Sento lo stomaco fare una capriola, e subito penso che il taxista aveva ragione. La luce di quegli occhi non si può descrivere.

 

Angelo Marenzana

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Angelo Marenzana

L’esordio nel campo della narrativa è con Frontiere (Mobydick, 1999) cui fa seguito la pubblicazione di un gran numero di racconti su Il Giallo Mondadori, Epix Mondadori, Urania, Stop, Crimen, Cronaca Vera, Omissis (Einaudi). Tra i romanzi, L’uomo dei temporali (Rizzoli 2013), Alle spalle del cielo (Baldini e Castoldi 2017) e L’ultima storia da raccontare (Watson Edizioni 2018 scritto a quattro mani con Danilo Arona). Per Nero Press ha pubblicato (con Danilo Arona e Luigi Milani) Solo il mare intorno e, in ebook, Tre fili di perle. Del 2017 è l’uscita de La scelta del Caporale (Edizioni della Goccia e in ebook per le Edizioni Algama) e del 2018 Il volo delle aquile di cristallo (Todaro Edizioni). Nel febbraio 2019 ha pubblicato Il delitto del fascista Nuvola Nera per Sergio Fanucci Editore nella collana Nero Italiano. Sempre per le Edizioni Algama è stato pubblicato in ebook il romanzo Hotel Moresco

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