Pioggia e freddo da battere i denti: il 27 luglio 1998 sulle rampe del Galibier sembra inverno. Mancano 47 chilometri al traguardo. Una vita, per il gruppo. Il momento giusto per attaccare, se sei Marco Pantani. Gli obiettivi fradici delle telecamere catturano lo scatto: la salita, feroce, sotto i suoi pedali sembra spianare. E il leader della classifica, il tedesco Jan Ullrich, si sgretola. Quel giorno il “Pirata” volerà a prendersi la Maglia Gialla che porterà fino a Parigi, unico ciclista italiano con Fausto Coppi ad aggiudicarsi Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno. Oggi in cima ai 2.600 metri del Colle Galibier c’è il monumento che lo ricorda: il campione venuto dal mare della Romagna curvo sulla bici. Solo. In salita. E una scritta: “Pantani per sempre”.
«È tempo di ridare la dignità a mio figlio», ci dice la signora Tonina, la madre di Marco, morto la sera di San Valentino di dieci anni fa in un residence di Rimini per un’overdose di cocaina, come disse l’autopsia» (l’avvocato della famiglia ha da poco ultimato l’istanza per la riapertura del caso). L’abbiamo incontrata alla presentazione del film Pantani, che ne ricorda «l’ascesa, il mito e l’arte ciclistica fino alla caduta. In quei pochi, incredibili 34 anni di vita era già scritta una drammatica sceneggiatura», come sottolinea a il regista James Erskine.
Signora Pantani, che cosa chiede oggi per Marco?
«Solo giustizia. Marco, come altri ragazzi, è stato una “preda” di interessi più grandi. Nessuno vuol negare l’esistenza del doping nel ciclismo, ma è giusto ricordare che mio figlio venne squalificato non perché positivo, ma perché aveva l’ematocrito (il valore che indica la densità del sangue, ndr) troppo alto».
I tifosi sono con lei?
«La gente non è stupida e ha capito che in quella squalifica ci furono molte cose non chiare. Per esempio, la sera prima dei controlli gli esami di mio figlio erano nella norma».
Come giudica il film?
«È un lavoro corretto, che dice molto sul funzionamento dello sport professionistico e su come gli atleti vengano condizionati. Dopo aver firmato il contratto da professionista, Marco mi disse che voleva smettere perché il ciclismo era una “mafia”. Ho ancora tanta rabbia e vorrei venissero fuori i veri colpevoli».
Di recente ha ritrovato una frase lasciata da Marco.
«Sì, dice: “Ragazzi, parlate: dobbiamo essere di esempio ai bambini. La vera ferita è Armstrong” (il corridore americano, avversario di Pantani, che ha ammesso di essersi dopato e a cui sono stati tolti i sette titoli vinti al Tour, ndr)».
Quali attività svolgete con la fondazione che lei presiede?
«La Marco Pantani Onlus si occupa di sostenere le persone e le famiglie in difficoltà. Promuoviamo la diffusione del ciclismo e dei valori corretti dello sport tra i più giovani».
Nel film, lei racconta che Marco ragazzino dormiva con la bici in camera.
«Amava la sua bicicletta: una volta lo sorpresi mentre la lavava nella vasca da bagno. Lo sgridai. I nostri mezzi non erano molti e per comprarla ci aiutò il nonno, il suo primo tifoso».
È vero che quando vinse il Giro del 1998 non volevano farglielo abbracciare?
«Non potevo superare le transenne per andare verso il podio. Ma sono piccola e allora sgattaiolai sotto le gambe degli uomini della sicurezza. Lo raggiunsi nel box e lui, da lontano, mi strizzò l’occhio».
Come cambiò la vostra vita dopo la squalifica del 1999?
«Marco non usciva più, aveva perso la voglia di allenarsi. Poi una mattina s’infilò la sua maglia gialla e prese la bici: a me sembrò che quel giallo fosse il colore del sole. Ma tornò poco dopo, affranto. Lo vidi che piangeva seduto sulle scale. Mi disse che la gente per strada, la stessa che forse l’aveva osannato, gli gridava “torna a casa, drogato”. Non possiamo dimenticarlo. Ora rivogliamo almeno la sua dignità».
Matteo Cislaghi per Stop