Dietro l’indagine Infinito. Parla l’avvocato di un presunto boss.
Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Di certo si dice che l’indagine di Milano sulle “locali” lombarde abbia colpito al cuore la ‘ndrangheta al Nord. E forse è così. Fronte del Blog ha voluto approfondire l’argomento, andando a sentire l’altra faccia dell’inchiesta: chi si è preso l’onere di difendere gli accusati.
«Le inchieste furono due. Una, Infinito, fatta a Milano. L’altra, Crimine, a Reggio Calabria e Locri. In un giorno arrestarono circa 300 persone…» L’avvocato Fabio Schembri è il difensore del presunto capo della cosiddetta “locale” di Cormano, Pietro Francesco Panetta. Ma quando gli si chiede se è vero che dunque la Lombardia sia diventata terra di omertà in mano alle cosche, un po’ di perplessità la mostra: «Guardi, ci sono alcuni aspetti da chiarire. Innanzitutto, a più del 70% degli imputati dell’inchiesta Infinito è stato contestato il solo reato di associazione mafiosa. Quindi niente minacce, furti, rapine, violenze, omicidi. Niente, solo il reato associativo. Solitamente il reato di associazione mafiosa presuppone una serie di reati che, in forza di minacce e di una lunga serie di episodi, assoggettino la popolazione, portandola all’omertà e alla paura. Naturalmente questi reati potrebbero essere stati compiuti in passato, come accade al sud, dove un clima del genere può essere vissuto, sapendo già bene chi sono i mafiosi e il timore che si può avere di loro. Ma le faccio l’esempio di Cormano: ai membri di quella locale non è stato contestato altro reato che quello associativo. Panetta non lo conosceva nessuno. In che modo potrebbero avere indotto all’omertà e alla paura la popolazione?» Tutto nasce dalla famosa riunione di Paderno Dugnano, dove le microcamere filmarono una riunioni tra le locali. «Sì, ma il fatto singolare è che questi, a Cormano, sono stati intercettati a lungo e di altri reati non c’è traccia. Moltissimi degli imputati sono incensurati. Panetta, e altri come lui, viene intercettato anche con Mandalari, altro presunto boss. L’aspetto più curioso, dato che nelle loro conversazioni non c’è nulla di rilevante, è l’orario: alle 7 di mattina. Panetta, secondo le indagini, andava al lavoro alle 7 e tornava a casa alle 21. Aveva un mutuo per una casa in edilizia popolare, faceva il serramentista dopo aver passato anni in Libia a fare l’operaio. Gli mancano due dita, perse sul lavoro. Mi pare singolare per un boss. Altri affiliati erano chi falegname, chi fruttivendolo. Uno faceva il custode, per meno di mille euro al mese». Non è però detto che un boss debba mostrarsi ricco. «Sì, ma il vero aspetto curioso di questa inchiesta è che all’interno mancano le famiglie storiche della ‘ndrangheta, contrariamente a quanto era successo con altre inchieste del passato, come Nord Sud o I fiori di San Vito». In proposito, la zona d’influenza Panetta sarebbe la medesima di quella dello storico boss Pepè Flachi: «Non c’è traccia di Flachi nell’inchiesta Infinito. Però vorrei sottolineare anche altri dettagli». Tipo? «Ci sono altri aspetti, nel computo di colpe e pene, da considerare». Quali? «Parte dell’inchiesta di Milano è finita per competenza in Piemonte e Liguria. E lì, differentemente da Milano, gli imputati sono stati tutti assolti. Di più. A Reggio, nell’inchiesta parallela Crimine, ci sono state più di 40 assoluzioni con l’abbreviato. E il capo della locale ionica, quello a cui, secondo le indagini, avrebbe obbedito Panetta, è stato condannato a cinque anni e quattro mesi. Panetta, in appello, a dieci anni». Si parlò di Domenico Oppedisano come del “grande vecchio” della ‘ndrangheta: «Ma no, i primi ad escluderlo furono proprio i magistrati calabresi. Ha preso dieci anni. Credo che quest’inchiesta sia stata molto enfatizzata dai media. Giusto è che chi ha commesso reati, paghi per i reati commessi, ma da qui a far credere che queste locali, in particolare Cormano, abbiano creato mafia e omertà, mi pare ce ne voglia». Poco dopo si è parlato del clan Valle e Lampada, sempre in Lombardia: «Già. Il caso l’ho seguito sui media. Tuttavia i Valle sono a Vigevano dagli anni ’80 e come Lampada non erano mai stati condannati per associazione mafiosa nemmeno in passato. I loro nomi risultano sconosciuti tra le grandi famiglie a capo delle cosche in Calabria».
Gigi Montero