NewsnoirRaccontiscrittori in trincea

Il Quarto Giorno

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cinomachia

 

Un giallo breve di Edoardo Montolli

 

VENERDÌ

Il capannone si arroccava in una fitta boscaglia alla periferia industriale di Rho, incagliato tra le montagne di terra smossa dai cantieri stradali della Fiera.

Fuori, i fari delle auto correvano nel buio.

Dentro, invece, nessuno aveva fretta. C’era odore di paglia e sangue. Il luogo era illuminato a giorno, i fari puntati sul ring ricoperto di segatura. Dietro, un’improvvisata tribuna in legno piena di gente. Altri stazionavano su latte di olio, sedie di plastica, panche umide e marce, troppo consumate dal tempo. Non eravamo più di un centinaio. Ma il brusio di cento persone alle due di notte suona un po’ come una specie di gorgo, che ti avvolge e ti precipita giù, nell’abisso. Non so se fosse per questo che mi sentivo stordito, oppresso dal baccano. O se era solo per la paura di distrarmi. Le urla delle donne fecero da preludio all’incontro successivo, il quarto, il clou della serata. Il fumo rese tutto più fosco, il caldo divenne opprimente quando accesero altre luci alogene. E all’odore del sangue si mischiò quello del sudore stantìo di una vecchia cariatide che voleva passarmi davanti. E quello ancor più acre delle bestie. Si sentì guaire. Poi ringhiare, abbaiare. L’uomo in canottiera bianca aprì la gabbia di Black e lo investì con una secchiata di latte.

«Che fa?» mi chiese un biondino ossigenato, tutto eccitato dal momento. Evidentemente era la prima volta che assisteva a un combattimento di cani. Gli spiegai che gli animali venivano lavati con il latte prima dell’incontro per togliere il veleno con cui il padrone poteva averli cosparsi, per fare in modo che, mordendolo, la bestia avversaria morisse.

Ma sapevo che Black non necessitava di alcun veleno. Perché Black era una furia. Ne conoscevo piuttosto bene la storia. Erano due mesi che avevo agganciato Tony, il suo proprietario, che dopo qualche giro di scommesse, era passato a narrarmi le gesta del pitbull fulvo. Uno che in due anni era diventato una vera e propria leggenda metropolitana. Una piccola stella bianca sulla fronte, venticinque chili, trentadue incontri vinti, cicatrici su tronco, gamba sinistra e gola riparate alla meglio con l’aceto. Un occhio quasi cieco per via della zampata di un lupo cecoslovacco. Niente, se si pensa che i suoi avversari erano diventati terra per ceci.

Tony si vantava di averlo addestrato a sviluppare il più alto livello di gameness, una specie di capacità di attaccare fino alla morte, ignorando il dolore. «Fin da cucciolo – ripeteva ossessivamente –, devi mostrare il pugno duro fin da cucciolo, se no non funziona più… ». Black veniva nutrito con anabolizzanti e carcasse di animali. A sei mesi era stato addestrato alla ruota: da una parte una gallina grondante sangue legata per una zampa, dall’altra lui, digiuno da un pezzo, che tentava invano di raggiungerla incollato a un quintale di zavorra. Quindi la prova della fame: qualche giorno senza cibo, e poi il miraggio di una costata di manzo, addentata ma subito issata a forza a due metri da terra. «Black non mollava perché moriva di fame. – rideva Tony picchiandosi il pugno nella mano – Io lo lasciavo così un paio d’ore, per far forti le mascelle».

Il resto, mi spiegò, era ordinaria manutenzione, che si ripeteva ad ogni vigilia del match:  Black restava isolato in una gabbietta dove gli era impossibile muoversi. Tony lo pizzicava con una spranga con corrente a basso voltaggio. Quarantotto ore in questo modo. E, una volta uscito, il pitbull diventava l’iradiddio.

Quella sera, nella bolgia del capannone, Black se la sarebbe vista con un rottweiler di cinquanta chili. Giovane, un anno e mezzo, era nero come il carbone e ringhiava dannatamente. Forse per paura. Ma era il favorito: in un mese otto combattimenti vinti, due mortali, aveva staccato la testa a un boxer. Giravano molte voci su di lui. Deformato dalle iniezioni di GH, si diceva riuscisse a resistere venti ore appeso ad un quarto di bue attaccato al ramo di un albero. E che ormai, il bastone elettrificato non lo sentisse neppure, tanto era indifferente al dolore. Non a caso, lo chiamavano El Diablo. No, forse non aveva paura. Forse.

Tutti i mesi c’era almeno un incontro e la voce si spargeva come un tam-tam nei bar della periferia, di bocca in bocca tra delinquenti di basso calibro, disperati frequentatori di bische e incalliti dell’azzardo nelle agenzie ippiche. Ultimamente al giro partecipavano anche alcuni rumeni con i loro cani. E i cinesi, gli unici ad avere sempre grana fresca in tasca. Con la legge sui maltrattamenti degli animali, gli organizzatori si erano fatti più diffidenti. Per partecipare ci voleva un garante. Il mio era, appunto, Tony.

Stavano lavando il rottweiler nel latte. Tony mi vide in prima fila. E, zoppicando, si avvicinò. Tentò di convincermi a puntare ancora sul suo cane, alitandomi addosso un puzzo fetido di aglio: «Fidati, gli ho fatto ingoiare una palla di sale. Black è viola di rabbia. Non c’è partita».

Gli piaceva meravigliarmi. Vantarsi delle sue scorrerie. Dire che fosse strambo era poco. Tony era un laido di 150 chili, zoppo per via di un vecchio regolamento di conti. Pelato, gli erano rimasti quattro denti marci. Un tatuaggio di una sirena sul braccio sinistro, l’orecchino a crocifisso, masticava aglio tutto il giorno perché sosteneva che tenesse lontana la sfiga durante gli incontri. Di mestiere ammazzava i vitelli in un macello dell’hinterland. Come facesse con tutto quel grasso non lo so. Forse li strozzava a mani nude. Di certo la Mercedes classe S 500 se l’era fatta sulla pelle dei suoi cani. Ne aveva cinque, ma Black non conosceva rivali. Si ficcò in bocca un altro spicchio d’aglio. In fondo, quella sera, contro El Diablo, ne aveva davvero bisogno.

Una cancellata ovale arginava il ring. Per terra, in prima fila, i bambini. L’allibratore, un osso d’uomo dai capelli neri tirati indietro, arrivò avvolto in una salopette nera, e sfilò tra loro a raccogliere le puntate. Pareva un coro unanime, tutti convinti dal nuovo idolo: «El Diablo, El diablo… ».

L’osso passò lì, e sugli spalti in legno, messi su con assi disposte tra ponteggi arrugginiti. Mi fece un cenno con la testa.

Srotolai una mazzetta senza nemmeno guardarlo. «Mille euro sul pitbull».

Rimase un attimo stupito. Poi sputò per terra. E ghignò: «Contento tu… »

Consegnò il grano al ciccione abbarbicato su una cassa d’acqua, il boss brizzolato che chiunque, nell’arena, chiamava Sandokan, con tanto di Marianne russe ai piedi. Due sventole che forse un giorno avevano sognato di fare le modelle. Che forse avevano sperato di non diventare mignotte e che certamente mai avrebbero immaginato di passare le proprie notti a veder zampillare sangue di cani. Ma il destino è sempre diverso da come te lo aspetti. E bisogna adattarsi: Sandokan non era bello né giovane. Ma quando si aprì la camicia rossa di seta sventolando due banconote da cinquecento euro e iniziò a usarle per accarezzarle, iniziarono anche loro a guaire.

Il caldo di luglio e le luci abbaglianti agli angoli rendevano insopportabile la puzza di carne macerata. A un ordine di Sandokan, i cani vennero finalmente liberati.

Il boato del pubblico coprì i latrati. Black sgozzò il rottweiler in meno di un minuto. E addio El Diablo.

Mi passai le dita sugli occhi. E mi accorsi che erano umidi.

 

SABATO

«Papà, me lo comperi un cane?» Mi ero svegliato di soprassalto, infradiciato, in una pensione diroccata. Colpa dell’incubo, ogni volta lo stesso, ogni volta la stessa conclusione, la stessa frase, come se le parole fossero state pronunciate in quel momento, e non quindici anni prima: «Papà me lo comperi un cane?»

Mi sciacquai velocemente su un lavabo unto, scagliando via uno scarafaggio. Avrei dovuto fare una doccia lunga ore. Ma dovevo restare sporco. Respirare ancora l’odore acre. Il sudore. Il sangue. L’ansia. L’adrenalina. Ascoltare le urla, i latrati, le bave.

Sul lavabo c’erano i resti di uno specchio.

Mi ci guardai dentro e, ancora una volta, la vita mi passò davanti: con il rottweiler infine comperato e che da cucciolo era diventato rapidamente una bella bestia da cinquanta chili. Lo avevamo chiamato Fox.

Già, Fox… Quando il fatto accadde, fu chiuso come un incidente. Tirai fuori dalla tasca il ritaglio di giornale che mi portavo sempre dietro. Mi asciugai il volto. E lo rilessi ancora: “Tragica fatalità. Una donna, Maria Dolores Fantini, aggredita e sbranata nel recinto dal suo rottweiler”.

Balle. Se lei avesse saputo che Fox era destinato a un combattimento, non avrebbe mai aperto la gabbia. Se avesse saputo della prova dello scratch, e cioè che Fox era stato affamato apposta per fargli assaltare il primo cane che passava, oggi sarebbe ancora viva. D’altra parte vai a immaginarlo. Ogni tanto in tv raccontavano di piccoli animali azzannati in un parco o per strada da pittbull o rottweiler. Tutti catalogati come incidenti, tutti finiti a sanzioni e lacrime amare.

Balle. Ma vai a immaginare che l’assalto nel parco costituiva l’iniziazione di un cane al combattimento. Vai a immaginare che i cani che aggredivano all’improvviso dei bimbi, spesso erano bestie pronte per la prova dello scratch e sfuggite alla mano del proprietario. No, non lo si poteva immaginare. D’altra parte le cronache raccontavano i fatti. Ma ignoravano i moventi.

E infatti se Maria Dolers Fantini avesse saputo la verità, se avesse saputo dello scratch, oggi sarebbe ancora viva.

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Viva. Viva.

Invece era tornata dopo quattro giorni di viaggio, lo aveva visto in gabbia. Nervoso. Affamato e assetato sotto il sole. E non ci aveva visto più. Armatasi di due grosse bistecche e imprecando per come era stata lasciata la «povera bestiola», aveva aperto le sbarre.

Arrivai troppo tardi. Fox l’aveva già azzannata alla gola.

Era riuscita a sibilare solo un «perché?», prima di crollare. Niente altro. Solo una parola: «perché?», poi il sangue le aveva allagato le corde vocali.

E… Cristo, i rimorsi non smettevano mai di soffocarmi.

Poco dopo si erano messi di mezzo gli assistenti sociali. Avevano scritto che “in seguito alla morte della madre, Maria Dolores Fantini, il piccolo Gabriel vive in un contesto disagiato e deve dunque essere affidato ad una comunità”.

Nel giro di due mesi ero rimasto solo. Io e i miei rimorsi. Ma la vita, mi dicevo, è solo una discarica di sogni.

Pagai la fottuta tenutaria della bettola. E decisi che la discarica doveva essere svuotata.

 

DOMENICA

Da dieci anni non mettevo piede a Le Trottoir, locale milanese noto per gli artisti e gli scrittori, i musicisti e le modelle, i disederedati e i miliardari. E per la battaglia che aveva ingaggiato a lungo con la polizia municipale. Dicevano che l’arte non poteva essere fermata. E infatti non chiudevano mai. I vigili non gradivano. E multavano. Finì che Le Trottoir sloggiò da corso Garibaldi e trovò rifugio a piazza XXIV Maggio, in un bastione. Diventando una specie di faro nel mare, luce notturna di una città da troppo tempo spenta. Affogai in due Cuba Libre e uscii ad aspettare a breve distanza, sotto l’albero degli impiccati, la quercia secolare cui Maurizio Cattelan aveva appeso tre manichini di bambini. C’erano stati fiumi di polemiche. Finché, poco più tardi, un altro pittore, Giuseppe Veneziano, gli aveva giocato il contrappasso, calando, dal medesimo ramo, un cappio che faceva ciondolare un ritratto di Cattelan. Nessuno sapeva ancora che presto anche Veneziano sarebbe diventato famoso in tutto il mondo. Di certo, da allora quella quercia secolare fu chiamata così. Come un punto di riferimento topografico per la fauna dei Navigli. Tipo, per una segnalazione stradale: «All’albero degli impiccati gira a destra». Proprio lì, di fronte a Le Trottoir. L’albero degli impiccati ora stava quasi venendo giù. Forse non reggeva il peso dell’arte. Di certo pensai che fosse un posto buono per morire.

Tramite “amici influenti” avevo fatto dire che avrei riscosso lì i tremila euro della vincita sul pitbull. Guardai la luna e respirai forte. La Jaguar parcheggiò alle tre del mattino sul marciapiede. Sandokan, la camicia chiazzata di sudore e i capelli leccati dalla brillantina, lasciò le russe a guaire sui sedili e dondolò verso di me con una mazzetta da cento euro e un sorriso ebete stampato sul volto. Appena mi fu di fronte, una alla volta, cominciò a calcarmele sulla mano: «Certo amico che sei strano… ».

All’inizio non realizzò, perché fece in tempo a mettermi un altro centone sul palmo. Poi vide la lama che gli aveva tagliato la pancia da parte a parte. Alzò gli occhi. Si piegò in avanti. Disse solo: «perché?». E schiantò al suolo. E io… be’, io, scoppiai a ridere.

 

LUNEDÌ

«Vede, commissario, è tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto chiedere a un bastardo come Sandokan di regalarmi un cane. Mai. Ma non pensavo che avrebbe mandato anche il mio rottweiler, Fox, a combattere. Perché, capisce, Sandokan era mio padre. Ma molti anni fa. L’ultima volta che mi vide ne avevo undici. È crepato senza nemmeno riconoscermi, chiedendomi solo «perché?»: la stessa parola che sussurrò mia madre, Maria Dolores Fantini, davanti ai miei occhi, il giorno che Fox la sbranò…la stessa parola precisa… non è straordinario? A volte, commissario, penso che non sia la vita ad essere bizzarra. Ma la morte».

Edoardo Montolli 

 

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