Vi proponiamo alcuni stralci dell’intervista esclusiva rilasciata al settimanale, in edicola venerdì 12 aprile.
Biella, aprile
– È il passato che ritorna, è una storia maledetta che non si è ancora chiusa e forse non si chiuderà mai. È un passato terribile, che dà i brividi: otto anni fa la piccola Matilda Borin, una bimba di ventidue mesi bella come una bambola, fu uccisa in una villetta di Roasio, in provincia di Vercelli, con un calcio alla schiena così forte da reciderle un rene e spappolarle il fegato. Per trovare il colpevole non bisogna cercare lontano, perché in casa al momento della tragedia c’erano solo Elena Romani, la madre di Matilda, e Antonio Cangialosi, il suo convivente. L’assassino non può che essere uno di loro.
Per anni, dopo la tragica morte della bimba, i due hanno continuato a proclamarsi innocenti e ad accusarsi a vicenda. Per chi ha sferrato quel calcio mortale l’inferno dovrebbe essere qui, quel rimorso dovrebbe restargli addosso come una seconda pelle e mordergli l’anima. Dovrebbe farlo crollare, sotto un peso così grande. E invece no: chi mentiva otto anni fa continua a farlo adesso, con la stessa decisione. L’assassino ha due volti ed è difficile, quasi impossibile, trovare quello giusto. Mancano prove certe, a carico dell’uno o dell’altra. Elena Romani, una ex hostess di Legnano di 39 anni che si è rifatta una vita con un altro uomo ed è diventata di nuovo mamma, è stata assolta in tutti i gradi di giudizio; Antonio Cangialosi, un ex bodyguard di 41 anni che ora si occupa di trasporti e vive vicino a Palermo dove ha un’altra fidanzata, non è stato neppure processato: è uscito dall’inchiesta nel 2007, con una sentenza di non luogo a procedere confermata tre anni dopo dalla Cassazione. Ma ora, a distanza di tanto tempo, la Procura di Vercelli ha deciso di riaprire le indagini e di puntare il dito su di lui, per cercare di arrivare finalmente alla verità. Ma è come muoversi in un labirinto, dal quale sembra impossibile uscire.
Siamo a Biella, nello studio degli avvocati Andrea e Sandro Delmastro Delle Vedove, padre e figlio: sono loro i difensori di Antonio Cangialosi, che è qui per raccontare in esclusiva a “Visto” la sua storia e soprattutto la sua verità. “Volevo bene a Matilda come se fosse mia figlia, le dicevo affettuosamente che lei era il mio tsunami, mi dava gioia di vivere. A volte, quando mi abbracciava, mi chiamava papà: perché avrei dovuto ucciderla?” dice con forza. E aggiunge: “Non accetto un’accusa così infamante. Non sopporto che si continui a sospettare di me”.
Non è la prima volta che Cangialosi viene sospettato di omicidio: “Sì, successe anche quando la mia prima moglie, Graziella D’Agostino, che avevo sposato nel 1994, mi tradì e mi lasciò per andare a vivere con il suo amante, Fabio Di Girolamo. Lei scomparve ed i maggiori sospetti si concentrarono proprio su di me, si pensò ad un delitto passionale, ad una vendetta. Invece fu proprio il suo amante ad ucciderla: la affogò nella vasca da bagno e nascose il suo corpo in una cassapanca in cantina. Poi, usando il cellulare di mia moglie, per sviare le indagini mandò un sms alla madre di Graziella: “Non cercarmi, vado in Francia, mi farò viva io”. Ma il cadavere fu ritrovato e Fabio, incastrato da prove schiaccianti, confessò”.
Nel dicembre del 2004 Cangialosi conobbe Elena Romani in un centro commerciale di Gallarate, dove lei, ex hostess, in quel periodo lei lavorava come cassiera: “Elena aveva avuto una bimba da Simone Borin, contitolare di un’agenzia di pompe funebri a Busto Arsizio, ma lo aveva lasciato. Avevamo entrambi voglia di rifarci una vita, decidemmo di metterci insieme: durante la settimana stavamo a casa sua, a Legnano, e passavamo i weekend nella villetta che io avevo affittato a Roasio. Eravamo una piccola famiglia felice. Matilda per me era la bimba che non avevo mai avuto, a volte passavano giornate intere insieme. Non c’erano ombre, nulla poteva far pensare che in quella casa sarebbe entrato l’inferno”.
E si arriva a quel giorno maledetto: “Era un sabato ed eravamo invitati a pranzo dal mio padrone di casa, il giorno dopo avremmo fatto una grigliata con gli amici nel giardino della villetta di Roasio. Elena dopo pranzo mi disse: “Prendi la bimba, è stanca, portala a letto, io aiuto a sparecchiare e ti raggiungo”. Elena arrivò, ci sdraiammo sul divano e facemmo l’amore, poi io mi addormentai. Quando mi svegliai, lei era in bagno: stava lavando la federa di un cuscino dove Matilda aveva vomitato, poi uscì in giardino a stenderla per farla asciugare. Fu allora che vidi la bimba: era in casa, appoggiata ad un muro, con la testa inclinata in avanti. Aveva le labbra bianchissime, chiamava la mamma ma la voce quasi non le usciva. La adagiai sul divano, accesi la televisione e le feci vedere i cartoni animati, sperando che fosse un malessere passeggero. Ma lei stava sempre peggio, perse i sensi. La portai in cucina, le gettai dell’acqua in faccia per cercare di svegliarla, poi chiamai Elena, ero spaventato. Lei rientrò e tentò di farle un massaggio cardiaco. L’ambulanza arrivò dopo 35 minuti, ma ormai era troppo tardi. Io non capivo che cosa potesse essere successo, furono poi le perizie a dimostrare che era stato un calcio sferrato con forza ad ucciderla”.
“Fu proprio Cangialosi”, spiegano gli avvocati Andrea e Sandro Delmastro Delle Vedove”, a presentare una denuncia ai carabinieri al “118” per il ritardo dell’ambulanza, ritenendo che potesse essere stata una concausa della morte della piccola.
(l’articolo integrale su Visto in edicola venerdì 12 aprile, nell’articolo firmato da Maurizio Caravella)