Sono passate da poco le 13,50 e due carabinieri scavalcano il cancelletto di casa Poggi, in una strada a fondo chiuso. Ad aspettarli fuori c’è Alberto Stasi, 26 anni. Qualche minuto prima li ha avvertiti, mentre era al telefono col 118, che lì, sulle scale che portano in cantina, c’è il cadavere della sua fidanzata, Chiara Poggi. Superata la porta i militari trovano sulla sinistra due pantofole bianche, un portavaso in metallo rovesciato. E sangue: ce n’è vicino alle scale che portano di sopra, sul telefono e sulla parete davanti alla scala che porta di sotto. Ci sono schizzi ovunque. In fondo alle scale della cantina il cadavere della ragazza, con il cranio fracassato. Forse con una forbice da sarto, forse con un martello da muratore, di fatto l’arma non verrà mai trovata. È il 13 agosto del 2007 e il giallo di Garlasco inizia così. Dopo l’assoluzione in primo grado di Alberto Stasi, e una rapida conferma in secondo grado a Milano, il 17 aprile tocca alla Cassazione decidere se chiudere definitivamente la sua posizione o riaprirla rinviando gli atti alla Corte d’Appello.
Una posizione che per Stasi sembrava definitivamente compromessa già due settimane dopo il delitto, quando su entrambi i pedali della sua bicicletta si disse che fosse stato trovato sangue di Chiara, quando il tono della sua telefonata apparve troppo distaccato agli investigatori, quando non furono viste evidenti tracce di sangue sotto alle sue scarpe, di lui che pure aveva detto di essere entrato velocemente in una casa che di sangue era piena. E poi non aveva un alibi, e forse aveva litigato con la fidanzata per via delle immagini pornografiche che lui guardava al pc. Sembrava un caso chiuso in partenza. Invece no. Tutt’altro.
Il primo a smontare le accuse fu il gip che non convalidò il fermo. Poi, nel processo svoltosi con rito abbreviato, fu il gup Stefano Vitelli, dopo aver disposto quattro accertamenti (tecnico informatico, medico legale, chimico sperimentale e semivirtuale), a fare letteralmente a pezzi il castello accusatorio. Il pc di Alberto era stato molto compromesso dalle prime manovre dei carabinieri che “hanno determinato la sottrazione di contenuto informativo con riferimento al pc di alberto stasi pari al 73,8% dei files visibili (oltre 56000) con riscontrati accessi su oltre 39000 files, interventi di accesso su oltre 1500 files e creazione di oltre 500 files”. Ma dai “metadati” risultò che alle 9,35 Alberto lo aveva acceso e che ci aveva lavorato sopra, per la sua tesi di laurea, fino alle 12,20. Nel frattempo aveva chiamato in continuazione casa di Chiara. Quando poteva averla uccisa considerando che la ragazza era viva fino alle 9,12, momento in cui disattivò l’allarme? E perché farlo, visto che non c’era alcuna prova di movente? Sui pedali della bici c’era del dna, ma non è affatto detto che fosse sangue. E il fatto che sotto le scarpe dell’imputato non ci fossero tracce ematiche non risultava una prova, dato che nemmeno sotto quelle dei due carabinieri che entrarono (e che fecero analizzare le scarpe dopo qualche tempo) ne fu trovato. Né ce n’erano di evidenti a occhio nudo sotto i calzari del personale del 118 (tranne una persona) entrato in casa. E un’impronta lasciata da Alberto sul dispenser del sapone in bagno da Alberto, messa così, non significava nulla. Il 17 dicembre 2009 Stasi veniva così assolto per non aver commesso il fatto. L’appello confermava. Ora la Cassazione potrebbe chiudere il caso, azzerando le indagini e riproponendo la domanda del 13 agosto 2007: chi ha ucciso Chiara Poggi?