Il libro su una ricerca durata quasi vent’anni è passato quasi in silenzio. Eppure, se fosse vero ciò che racconta all’interno l’ingegner Paolo Rabitti, ci troveremmo di fronte ad una delle più drammatiche stragi del dopoguerra. Ancora peggiori perché avallata dalle istituzioni. La vicenda sembra la trama di un film. E dobbiamo partire da molto lontano. Esattamente dal 10 luglio 1976. Fu allora che l’Italia imparò a conoscere la diossina. E da quel momento, per tutti, l’immagine che riporta alla mente questa parola si identifica in una nube tossica, quella che dall’Icmesa di Meda avvolse i cieli sopra Seveso, nel più grave incidente chimico che l’Italia abbia mai conosciuto.
Sulla vicenda si aggrovigliò più di un mistero. E trentasei anni più tardi se ne è aggiunto un altro, il più inquietante: l’ipotesi che parte del materiale contaminato dell’Icmesa sia stato smaltito nell’inceneritore di Mantova e abbia provocato così una serie di gravissime malattie negli abitanti. Un’ipotesi che fa a pugni con la verità ufficiale, ma messa nero su bianco nello scioccante libro-inchiesta Diossina. La verità nascosta, edito da Feltrinelli. È stato scritto dall’ingegnere sessantenne Paolo Rabitti, massimo esperto di tematiche ambientali, già consulente di Felice Casson per l’indagine sul petrolchimico di Porto Marghera, l’uomo che ha portato a far scoprire ai magistrati napoletani il “marcio” nell’annosa questione dei rifiuti. Ma soprattutto un mantovano che da oltre vent’anni sta cercando la verità sui veleni che hanno intossicato la sua città, dove ancora, per spostarsi e andare in ufficio, ama usare il kajak e attraversare il lago remando per ammirarne il paesaggio.
Da dove arrivano i sarcomi dei mantovani
Per capire da dove prenda corpo la sua pista, bisogna cominciare dall’inizio. E da dove, ufficialmente, sarebbe stato smaltito il materiale contaminato dell’Icmesa.
«Partiamo dal fatto – dice Rabitti – che di materiale contaminato da diossina ce n’era di ogni tipo. Quella contenuta nel reattore è stata infustata in 41 bidoni, partiti ufficialmente per la Francia nell’autunno dell’82 e ritrovati dopo una ricerca durata mesi in un macello abbandonato vicino a S.Quentin. Peccato che quelli partiti fossero diversi da quelli ritrovati. Ci sono testimonianze e ho rinvenuto e comparato le foto. I bidoni erano in mano a tale Bernard Paringaux, che commentò così l’allarmismo suscitato dalla scomparsa: “tutto questo baccano sui bidoni serve a coprire la destinazione di 35.000 tonnellate di terreno contaminato, che in realtà sono 35.000 metri cubi ed in effetti mancano dal conto”. Non solo. Furono raccolte 1600 tonnellate di prodotti, di cui sembra che una parte sia andata alla combustione nel mare del Nord, come sostiene l’Ufficio speciale per Seveso. Niente di certo, insomma, nemmeno per le fonti ufficiali. E già questo è incredibile».
Quando nacque la sua ipotesi dell’inceneritore di Mantova?
«Anni fa. Ma bisogna fare un passo per volta. Mia moglie, medico di base, notò nei suoi pazienti che abitavano vicino alla zona industriale un’elevata concentrazione di particolari tipi di tumore, i sarcomi dei tessuti molli. Si tratta di tumori che hanno tra i fattori di causa proprio la diossina. Con la collaborazione di altri medici realizzammo allora un’indagine epidemiologica, che confermò quest’anomalia. Successivamente l’Istituto Superiore di Sanità indicò un rischio elevatissimo di contrarre sarcomi per chi risiedeva nel raggio di due chilometri dall’inceneritore dell’ex Montedison che smaltiva rifiuti pericolosi. Un rischio trenta volte superiore a quello degli altri cittadini. La prima domanda naturalmente era: perché?»
I valori erano infatti talmente sballati che fu chiesto di analizzare il sangue dei mantovani, e in particolare in chi abitava vicino all’inceneritore, per vedere se contenesse grandi quantità di diossina. Ma la clinica del lavoro di Milano, che li aveva messi a confronto con città poco esposte alla diossina, lo escluse. Ma poi, racconta Rabitti, a fronte di un suo lavoro che ne metteva in luce alcuni errori e di un’interrogazione parlamentare di Casson, rivide decisamente il proprio parere, in un “consensus report” stilato insieme all’Istituto superiore di Sanità: e sostenne che il livello di diossina nel loro sangue era medio-alto.
Ed eccoci al punto: da dove arrivava l’alta concentrazione di diossina nel sangue dei mantovani che provocava i sarcomi?
«Le diossine sono molecole che contengono atomi di cloro: se non c’è cloro, non ci sono diossine. Nel ‘92 è terminato l’uso di cloro nelle lavorazioni del Petrolchimico. Ma di certo di petrolchimici in Italia ce ne sono parecchi, con annessi inceneritori. Ma concentrazioni di sarcomi come a Mantova non ce ne sono da nessuna parte, Seveso compreso. Non a caso sono stato chiamato a relazionarne alla Gordon and Mary Cain Foundation a Philadelphia».
Le foglie caddero a maggio
E allora dati i risultati, apparentemente inspiegabili, ecco l’ipotesi shock: la diossina potrebbe essere arrivata da qualcosa smaltito nell’inceneritore di Mantova, costruito nel 1975 e bloccato nel 1992. «Ma ai tempi del disastro di Seveso era tra i più moderni d’Europa. E c’è un fatto inquietante che va ricordato: i sarcomi hanno iniziato a manifestarsi a Mantova tra la metà e la fine degli anni ’80, dopo i consueti dieci anni di latenza del tumore. E cioè circa dieci anni dopo l’incidente dell’Icmesa. Il periodo lo ricordo bene. Ero arrivato a vivere qui da poco. E l’episodio mi è rimasto in testa fin da allora: ci trovavamo in primavera. E le foglie dei pioppi nel mio giardino, che dista dall’inceneritore poco più di due chilometri, ingiallirono di colpo. Una circostanza stranissima e confermata anche dalla figlia di una donna deceduta per un sarcoma».
Un passo dietro l’altro, un colpo di scena dietro l’altro, Rabitti ha così raccontato vent’anni di inchiesta personale.
«Un’inchiesta giudiziaria è stata aperta a Mantova, ma finora non ha portato risultati. Quello che mi auguro io è che chi sa qualcosa parli. Perché ciò che ho detto sinora è provato con i documenti. Ma un amico mi ha raccontato, accettando che pubblicassi nel libro il suo nome, di una scena in cui un operaio Montedison disse nel 2002 al Sindaco di Mantova che avevano smaltito nell’inceneritore la roba di Seveso».
Di più. Scavando nelle carte, trovando documenti dimenticati o inediti e raffrontandoli, l’ingegnere ha maturato un’idea precisa, che costituisce l’ossatura di una trama da spy story, ma dannatamente reale. Quale?
«Che Paringaux avesse ragione e che mancano all’appello 35.000 metri cubi di terreno contaminato, che l’inquinamento da diossina a Seveso fosse precedente allo scoppio del ‘76, che l’impronta digitale delle diossine nel sangue dei mantovani è quasi uguale a quella degli abitanti di Seveso, che il reattore di Seveso poteva raggiungere temperature in grado di produrre materiale contaminato da diossina, adatto per usi militari, e che le pubbliche autorità, al tempo dell’incidente ed anche dopo, raccontarono al mondo un sacco di balle».