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Il caso di Yara Gambirasio: il D.N.A e la “pistola fumante”

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Dopo l’arresto di Massimo Bossetti, il presunto “Mostro muratore”, nel giugno del 2014, sono seguite dichiarazioni trionfalistiche da parte degli inquirenti, che hanno annunciato di aver scoperto l’assassino di Yara Gambirasio grazie ad un’indagine scientifica così all’avanguardia da non aver precedenti al mondo.

Essendo cittadino bergamasco, conterraneo dell’innocente assassinata, avevo seguito l’evolversi dell’ inchiesta dopo il ritrovamento del suo cadavere nel febbraio del 2011.

Gli organi di informazione nei mesi precedenti avevano dato notizia di una vasta ricerca per associare un nome e un volto ad una traccia genetica ritrovata sul corpo senza vita della ragazzina.

Sino ad allora, era stato identificato il padre naturale dello sconosciuto, un defunto autista residente nella provincia di Bergamo, Giuseppe Guerinoni, ma nulla ancora si sapeva riguardo la madre, in quanto si trattava di un figlio nascosto, nato da una relazione extraconiugale clandestina.

Al riguardo erano in corso analisi di confronto a tappeto, coinvolgenti un gran numero di donne del circondario.

Sul successo della ricerca erano molti a manifestare scetticismo, vista la larghezza del campione da analizzare e la possibilità che la madre dello sconosciuto si fosse trasferita altrove o fosse morta.

Non era tuttavia l’imprevisto esito positivo della “caccia” alla madre a stonarmi.

La mia perplessità dipendeva dalla sicurezza, espressa non solo dalla magistratura e dagli investigatori impegnati nel caso, ma addirittura dal vertice del Ministero dell’ Interno, che la scoperta del proprietario del D.N.A. ritrovato sul corpo della vittima chiudesse ipso facto l’inchiesta, in quanto prova inconfutabile che costui era il carnefice di Yara Gambirasio.

Ad arresto di Bossetti ancora caldo, ma anche successivamente, era difficile avanzare obiezioni riguado a tale certezza perché l’opinione diffusa, alimentata dalle pubbliche dichiarazioni degli inquirenti, era che, essendo stata condotta con esemplare professionalità un’indagine “scientifica”, per l’accusato non c’era scampo.

La scienza, come si dice, è “esatta”.

Qualcuno protestò in nome del principio di presunzione d’innocenza dell’imputato fino a sentenza definitiva ma, pur ammettendo la correttezza della critica, essa veniva snobbata come esclusivamente formale e inutilmente cavillosa.

Anche un criminale colto sul fatto, con la “pistola fumante” in pugno, era costituzionalmente innocente, ma secondo il buon senso colpevole, colpevolissimo.

E l’identificazione “scientifica” attraverso il D.N.A. equivaleva a una “pistola fumante”.

La mia contrarietà non era ispirata ad un pur sacrosanto garantismo processuale.

Aveva ( e rimane tale…) natura sostanziale.

Ho sempre ritenuto che il diritto penale sia non solo il vertice della civiltà giuridica ma anche, e soprattutto, la più alta espressione della razionalità applicata ai fatti.

Poiché la giustizia, quando condanna, colpisce un cittadino nel bene primario della libertà, il procedimento di valutazione della responsabilità deve essere rigorosamente logico.

E l’equazione: traccia di D.N.A trovata sul corpo della vittima uguale colpevolezza del soggetto cui appartiene, è logicamente scorretta.

Se si trova il D.N.A. di una persona sul cadavere di un assassinato, ciò prova solamente un contatto tra cellule del suo corpo ( unghie, capelli, sangue o altro) e quello della vittima.

Per arrivare alla prova della sua colpevolezza si deve dimostrare che il suo D.N.A., così ritrovato, può appartenere solamente a chi ha commesso il delitto.

Perciò una condanna basata solo sul ritrovamento del D.N.A. sul corpo della vittima deve rigorosamente escludere che la traccia genetica dell’imputato possa trovarsi lì senza che questi abbia commesso il delitto. Ovviamente, per effetto della presunzione l’innocenza, tale prova è a carico dell’accusa.

Ecco: la mia obiezione stava tutta qui.

Ai tempi, non potevo sapere se Massimo Bossetti fosse colpevole o innocente.

Dalle prime, ancora confuse notizie mi sembrava che la vicinanza della sua abitazione al luogo del delitto autorizzasse il sospetto e giustificasse un’indagine.

Mi era però chiara la necessità di trovare a suo carico altre prove oltre a quella del D.N.A.

Tutto il lavoro, senz’altro apprezzabile,  volto a isolare la traccia genetica e confrontarla con quella di una  vasta parte di popolazione, non aveva prodotto la ” pistola fumante” , semmai una pista promettente.

Ciò per il motivo che la dimostrazione – lo ribadiamo: una “conditio sine qua non”- che solo l’assassino di Yara poteva aver lasciato quella traccia, si presentava, e continua a presentarsi, come la classica ” prova diabolica” , ovvero talmente difficile da tendere all’impossibile.

Questa difficoltà insormontabile riguarda tutte le “prove negative”.

Per “prova negativa” intendo quella che, individuata la spiegazione di un fatto, esclude che esistano altri modi per spiegarlo.

La prova negativa costituisce , dal punto di vista metodologico, un problema insolubile. Solo Dio possiede l’onniscienza. L’uomo non può mai affermare di aver vagliato tutte le possibilità.

Il buon Socrate, quando diceva che la saggezza sta nel “saper di non sapere”, aveva , ed ha ancora, pienamente ragione.

Con riguardo al D.N.A di Bossetti sul corpo di Yara ci voleva, e ci vuole ancora, poco ad accorgersi del maggiore ostacolo alla “prova negativa”: la possibilità di una contaminazione artefatta.

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Ovvero: quale studioso di D.N.A. può affermare, con assoluta certezza, che la traccia genetica del “mostro muratore” non sia stata maliziosamente “trasportata” sul cadavere di Yara a scopo di depistaggio?

Ripeto: non sto sostenendo che Bossetti sia sicuramente innocente. Sto dicendo che la traccia genetica ritrovata sul corpo della compianta campionessa di ginnastica di Brembate Sopra non è in grado, da sola, a provare che è colpevole.

Rino Casazza

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Rino Casazza

Rino Casazza è nato a Sarzana, in provincia di La Spezia, nel 1958. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Pisa, si è trasferito in Lombardia. Attualmente risiede a Bergamo e lavora al Teatro alla Scala Di Milano. Ha pubblicato un numero imprecisabile di racconti e 15 romanzi che svariano in tutti i filoni della narrativa di genere, tra cui diversi apocrifi in cui rivivono come protagonisti, in coppia, alcuni dei grandi detective della letteratura poliziesca. Il più recente è "Sherlock Holmes tra ladri e reverendi", uscito in edicola nella collana “I gialli di Crimen” e in ebook per Algama. In collaborazione con Daniele Cambiaso, ha pubblicato Nora una donna, Eclissi edizioni, 2015, La logica del burattinaio, Edizioni della Goccia, 2016, L’angelo di Caporetto, 2017, uscito in allegato al Giornale nella collana "Romanzi storici", e il libro per ragazzi Lara e il diario nascosto, Fratelli Frilli, 2018. Nel settembre 2021, è uscito "Apparizioni pericolose", edizioni Golem. In collaborazione con Fiorella Borin ha pubblicato tre racconti tra il noir e il giallo: Onore al Dio Sobek, Algama 2020, Il cuore della dark lady, 2020, e lo Smembratore dell'Adda, 2021, entrambi per Delos Digital Ne Il serial killer sbagliato, Algama, 2020 ha riproposto, con una soluzione alternativa a quella storica, il caso del "Mostro di Sarzana, mentre nel fantathriller Al tempo del Mostro, Algama 2020, ha raccontato quello del "Mostro di Firenze". A novembre 2020, è uscito, per Algama, il thriller Quelle notti sadiche.

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