Parla Paolo Brera, autore cult di noir e ideatore di una nuova collana di ebook: i racconti meno noti dei più famosi scrittori di sempre, tradotti e curati personalmente. Ossia “I racconti di Brera”, cominciati su Sette, il magazine del Corriere della Sera e oggi in volume per Algama. Su Stop anche un suo romanzo breve
Paolo Brera, giornalista e scrittore di lungo corso, è l’inventore della saga del colonnello De Valera, gialli dove si respira anche molta ironia. E dove si mescola anche la realtà con la fantasia. Ha appena ripubblicato in ebook per Algama “Il veleno degli altri” e “Il denaro degli altri”.
Paolo, Come nasce il colonnello De Valera?
Si presenta per caso nel primo romanzo giallo-noir che ho scritto, dove non ha un ruolo fondamentale. Investiga su un delitto, ma il punto non è l’indagine. Man mano che venivo scrivendo, il colonnello assumeva uno spazio sempre maggiore. Alla fine del romanzo, ero pronto per farne un protagonista. Infatti compare in tutti i miei gialli e noir successivi.
Che tipo è e di quanti tuoi romanzi è protagonista?
Valerio Maffi De Valera discende da un De Valera storico scappato dalla Spagna nel Seicento per una storia di eresia. Nell’Ottocento un discendente con il suo cognome incontra una Maffi, di una famiglia nobile. Si decide che i figli portino entrambi i cognomi, per conservare il titolo nobiliare.
Valerio è un libertario, il che in fondo è in contraddizione con il suo ruolo di colonnello dei carabinieri che svolge indagini. Ha un sacco di buone qualità e un solo vero difetto, è disordinato. È poliglotta, pratica il karate, è intelligente e molto critico, molto umano. È un uomo affettuoso e sexy la sua parte. Mi scuso con il pubblico gay, ma è rigidamente etero.
Naturalmente, per un personaggio è una bella facilitazione avere dalla sua l’autore. Si parva licet, è come per noi avere dalla nostra Dio stesso. Quindi Valerio non fallisce mai. Risolve sempre i suoi casi. Ma sul piano personale, le cose gli vanno bene solo quando gli faccio incontrare Güldil Zekikadın. Valerio compare (non sempre si può dire che sia protagonista) in sette romanzi e almeno altrettanti racconti.
Quali sono i tuoi romanzi cui ti senti più affezionato?
Nella famiglia dei miei romanzi c’è un figlio rachitico che è Il futuro degli altri. Parte da un evento straordinario: un giornale pubblica come supplemento un libro in cui viene descritto con esattezza un delitto avvenuto il giorno prima. Solo l’omicida può averlo scritto. Ma Valerio Maffi De Valera non ci crede, e gli tocca sbrogliare la matassa.
Il romanzo mi è caro perché mischia i piani della realtà e della finzione. In fondo il mondo in cui viviamo è il velo di Maya della realtà vera a propria. Quindi i piani della realtà sono più di uno e facilmente si intersecano.
Come è iniziata la tua passione per il noir?
Be’, ho avuto per tre anni un’intuizione lancinante, un romanzo un po’ giallo e un po’ noir, che alla fine ho scritto. Avevo già scritto molta narrativa, ma non in quel genere. Mi è risultato congeniale. Non voglio dettare ricette per le cucine di altri, solo per la mia, però mi sembra che in un romanzo debba succedere qualcosa di fuori dell’ordinario. Un delitto risponde a questa definizione. Intorno c’è gente magari singolare, ma in un certo senso comune. Niente persone dai nervi di ferro, dai muscoli d’acciaio, dalla mente che non conosce esitazioni. Gente che ha obiettivi normali, magari strani ma entro i limiti della normalità. Come reagirebbero a contatto con una situazione del tutto ecezionale?
C’è sempre molta ironia nei tuoi romanzi e nei tuoi racconti: la narrativa è uno specchio della vita?
Lo spero proprio. A me piace osservare i risvolti meno scontati della vita. L’ironia è indispensabile. Pensa a quanta ironia c’è nei romanzi dei Dostoevskij, a proposito dei quali è stato osservato che in genere l’intreccio svanirebbe se arrivasse un personaggio con un bel libretto degli assegni. Karamazov padre la scamperebbe, l’usuraia di Delitto e castigo potrebbe diventare azionista di una finanziaria e vivere sempre felice e contenta, e via dicendo. Invece i suoi personaggi subiscono una catarsi e arrivano a risolvere il loro problema senza quello che si erano immaginati potesse risolverlo, cioè il denaro. Più ironia di così.
Hai iniziato una nuova collana su grandi autori stranieri. Ce ne parli?
A me piace rendere in italiano il pensiero di altri che scrivono in altre lingue. In virtù di questa mia passione ho preso racconti e novelette, insomma narrativa breve, di autori europei, e ne ho prodotto una versione italiana. Autori grandissimi, perché così si va sul sicuro: il giudizio è già fatto da tempo. Narrativa breve, perché la gente oggi ha meno tempo per opere lunghe. Versione italiana, perché anche se uno sa la lingua originale spesso è troppo difficile leggere un’opera in quella anziché in traduzione. Altro criterio, combinare l’adattamento alle condizioni attuali con un tanto di fedeltà alla situazione descritta nell’originale, in modo che la lettura sia godibile. Per esempio, se Cervantes fa dire “Marrano!” da un suo personaggio, io in linea di massima traduco “Stronzo!”, così si capisce bene; però non ogni volta, dato che l’azione si svolge nel Seicento e non oggi. Ci vuole un tocco delicato, ma io ci provo. E sono già arrivato a operare con quindici lingue, traducendo sempre io. Il primo è “Prigionieri del Caucaso”, coi racconti di Lev Tolstoj e Xavier De Maistre, in ebook.
Quindici lingue! Come hai fatto?
Non lo so. Ho studiato diverse lingue, anche se non tutte quelle con cui ho lavorato, e ho a disposizione Internet che è come un titanico dizionario enciclopedico. Ci ho provato, e immagino di esserci riuscito, visto che le traduzioni italiane sono lì a dimostrarlo. Se poi i racconti tradotti siano belli da leggere me lo dirà il mio signor Pubblico.
Uscendo dal seminato. Tuo padre fu il Maestro dei giornalisti sportivi: come avrebbe vissuto il calcio di oggi? E tu, hai la stessa passione per il pallone?
No, non me ne intendo e non seguo il calcio sotto l’aspetto sportivo (sotto quello antropologico sì, e ne apprezzo molto il ruolo nella società italiana). Quindi non posso sapere come Gianni Brera avrebbe vissuto il calcio di oggi: lui era competente e io non lo sono.
Manuel Montero