Enrico Solito, tra i massimi esperti mondiali su Sherlock Holmes, esce con il thriller Sherlock Holmes e le ombre di Gubbio (in promozione a 2,99 euro fino al 5 settembre). Nel suo intervento su Fronte del Blog spiega come si scrive un apocrifo
Un apocrifo è un atto d’amore. Accettare di esercitare la propria intelligenza e il proprio lavoro intellettuale all’interno di un universo parallelo creato da altri è rendere un omaggio significativo a chi quel mondo ha creato, e a quel mondo in sé. Solo chi ama fino in fondo quelle storie, quel Canone, può accettarne le regole riconoscendole come proprie: introiettare nella propria mente quei personaggi, accettando di non modificarli più, accettando la limitazione di libertà di scrivere che ciò comporta, significa averli amati ed accettarli come propri.
In questa relazione di amore vi è spazio, certo, per reinterpretazioni, che sono poi la visione con cui ognuno di noi ha vissuto quelle storie, quell’amore. Ma per quanto le corde dell’anima possano essere diverse, per quanto le sfumature che si sono notate, che ci hanno fatto vibrare, possano divergere tra le persone, le regole base sono chiare, e comuni: e questa è la ragione per cui ci sono buoni e pessimi apocrifi. Buoni sono quelli che quelle regole rivivono e fanno proprie, orrori quelle in cui i rapporti, i personaggi, tradiscono il mondo in cui dovrebbero stare. Non è solo cattiva letteratura: è un oltraggio all’innamoramento, e come tale imperdonabile.
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Il resto, in fondo, è tecnica; la necessità di documentarsi, la lunga ricerca di fonti attendibili di noi tutti, lo studio lento e divertentissimo. Se l’apocrifo è amore, la ricerca è come la lunga caccia all’amata, la fase di ricerca e conquista, l’avvicinarsi e il proporsi, l’avanzare idee: il corteggiamento insomma, croce e delizia, piacevole e disperante, ma che a tutti in fondo dà gioia.
Tecnica è anche la scrittura: l’usare dei “topos”, cercare di imitare la lunghezza dei paragrafi, i termini conosciuti, le frasi gergali. E non è questo come in un amore limitare un pochino la propria libertà ed adottare i modi di dire, le soluzioni di tutti i giorni, il modo di vivere trovato assieme all’altra persona? Tecnica d’amore, appunto. E anche qui chi cambia tutto, chi introduce modi suoi e diversi di scrivere stecca, rende spiacevole l’apocrifo, come chi in una relazione chiama il partner col nome di un altra persona.
E però, esistono anche apocrifi noiosi, oltre che cattivi apocrifi. Esistono apocrifi ineccepibili, corretti, ma che annoiano. Perché? Ma perché il primo motivo che spinge tutti gli autori a cimentarsi nel genere è uno solo (lo scrisse per primo, per quel che ne so, Derleth, l’autore di Solar Pons): arrivare alla fine del canone e rendersi conto con sgomento che è finita, non c’è altro da leggere. Di lì la scelta logica di scrivere ( e dis crivere in quel modo, come se quel mondo esistesse) per poter leggere poi, per continuare a tenere in vita quell’amore. Ma l’amore va tenuto sempre verde, non può ripetere semplicemente sé stesso: bisogna reinventarsi e portare novità mentre la vita intorno continua, anche se sempre in un modello che si è scelto insieme. Lo stesso per le storie: ripetere sé stessi, le stesse trame, lo stesso tipo di deduzione, è noioso quanto lo è un marito con le pantofole dopo trenta anni, o una conversazione a tavola ripetuta quaranta volte. Un buon apocrifo è anche qualcosa di nuovo, aria fresca in un rapporto stabile: interessi nuovi tra una coppia che si capisce al volo. Un buon apocrifo perciò è quello che rispetta tutto, che segue fedelmente nel filone dei personaggi, ben scritto, ma anche che porta trame nuove, che non ricalca pedissequamente le storie già scritte. Deve essere come se lo avesse scritto Watson, ma bisogna anche che Watson avesse un motivo per scrivere anche quella storia: che significasse qualcosa, non un semplice doppione di qualcosa già conosciuta.
E’ questo “tenere la memoria sempre verde”: non contentarsi mai, osare, cercare nuovi confini, senza mai mettere in discussione il punto principale: la ricerca di giustizia e verità, l’amicizia tra Holmes e Watson, la razionalità. Per questo ci capita di innamorarci di trasposizioni in cui tutto cambia, ma nulla cambia (la serie “Sherlock”, il film “Senza Indizio”).
Cambiare tutto se si vuole, ma restare fedeli al succo della storia, alla sua sostanza.
E non è così anche in amore?
E non è amore, allora, questo?